Ha avvisato che andava volontario in Romagna per aiutare ed è stato licenziato. Ci associamo alle critiche al datore di lavoro e diamo tutta la nostra solidarietà al lavoratore.

Guardiamolo anche come esempio del mercato del lavoro giovanile. L’impiego era regolare con contratto a chiamata. Il ragazzo faceva questa attività per mantenersi all’università. Questi contratti non hanno tutte le tutele e i diritti dei contratti di lavoro? Si può certamente correggere e renderli più tutelanti. Certo non sono precarietà, ma permettono di fare incontrare due flessibilità. Quella della pizzeria, che usa i fattorini per le consegne solo in alcuni giorni e orari della settimana, e quella utile al ragazzo per poter frequentare i corsi universitari. La stessa situazione in altri territori, o semplicemente con altri interlocutori, potrebbe essere di un ragazzo che non studia più, fa lavoretti in nero e vive in famiglia. Analizzando questa situazione nell’ottica dell’attuale allarme che c’è sul mercato del lavoro ci troveremmo davanti a un Neet e, se una quota del salario fosse in grigio, a un lavoratore povero e precario.



Se guardiamo ai giovani che entrano nel mercato del lavoro con un titolo di studio scopriamo che vengono giudicati sul tasso di dimissioni che li caratterizza e con un giudizio sul fatto che non assegnano più lo stesso valore al lavoro dato dalle generazioni precedenti.

Gli esempi fatti ci spingono a cercare di dare a ciò che sta succedendo una lettura diversa da quanto prevale nei commenti correnti.



Per prima cosa dovremmo liberarci della definizione di Neet. Definire una categoria solo in negativo non mi dice nulla sul che fare per affrontare il suo problema. Io non sono una pianta, non dice nulla di cosa mi serve, se non che posso fare a meno di essere innaffiato. Dalle poche statistiche disponibili che cercano di dire chi sono i Neet emergono tre categorie che coprono oltre il 75% dei componenti. La principale è quella degli scoraggiati. Giovani che accetterebbero di lavorare, ma che per la situazione economica locale hanno smesso di cercare lavoro e attendono qualche occasione, spesso facendo lavoretti che non risultano. Vi è poi un numero elevato di giovani donne che somma alle problematiche generali dei giovani del primo gruppo quello di essere mamme e che scontano, quindi, l’assenza di servizi dedicati. Il terzo gruppo è costituito da giovani che hanno solo il titolo della terza media o addirittura quello della scuola elementare e che sopravvivono nell’economia marginale.



Se questa fotografia corrisponde al vero è evidente che servono politiche attive di accompagnamento al lavoro diverse e modulate sulle esigenze che esprimono le diverse persone. Per molti vi è bisogno di formazione finalizzata a un posto di lavoro già individuato perché hanno una base di competenze. Per altri va previsto un percorso di riavvicinamento al lavoro con inserimenti lavorativi e affiancamento formativo. Servizi a supporto economico per le giovani mamme sono indispensabili perché possano uscire dalla categoria di scoraggiate e si pongano l’obiettivo di rendersi attive nel lavoro.

Molti di questi potenziali lavoratori potranno trovare occupazione nel settore dei servizi, a forte impiego di manodopera con molti posti a bassa qualifica. Il lavoro su tutele e diritti, a partire dalla garanzia dei minimi salariali di settore, deve riguardare soprattutto questi settori. La rottura definitiva fra flessibilità e precarietà passa per la definizione di tutele contrattuali che fotografino le diverse esigenze delle imprese, ma anche, come visto, dei lavoratori.

Così come partendo dagli ultimi è possibile individuare un tracciato diverso da quello che normalmente disegna il lavoro giovanile, troviamo anche nelle fasce più preparate una realtà diversa dalla grande fuga delle dimissioni. Chi può permetterselo cambia lavoro per migliorare la sua posizione lavorativa. Mismatching formativo e calo demografico fanno sì che per alcune categorie di lavoratori sia possibile esercitare una nuova forza contrattuale. Si somma a questo movimento quello di molti lavoratori che nel periodo di lockdown hanno cambiato settore trovando condizioni lavorative migliori, ma creando un “buco” di personale in alcuni settori che perdura ancora oggi. Non è certamente fuga dal lavoro, tanto è vero che il tasso di occupazione è costantemente in salita, ma è ricerca di condizioni lavorative migliori.

Sono richieste difficili quelle che vengono dai giovani? Certo la richiesta generalizzata di aumenti salariali o taglio degli orari a parità di salario richiedono tempo, almeno quello di mettere in atto anche una crescita della produttività di sistema e non solo in alcuni settori. Ma avere tutele e diritti estesi in tutti i settori, indicazioni di crescita della propria professionalità, conciliazione degli orari con le scelte di vita non sono gli stessi desideri che supportavano i sacrifici anche delle generazioni precedenti? Se la scala sociale si è bloccata, quale speranza può rimetterla in moto se non partendo dalle domande di chi entra oggi nel mercato del lavoro?

Sappiamo bene che negli ultimi anni si sono tolte risorse al welfare per i giovani per mantenere un sistema pensionistico e un sistema di sussidi costoso quanto ingiusto. Le tensioni sulle tende degli universitari sono un sintomo pari ai segnali che vengono dal mondo del lavoro di una crescente insofferenza per queste crescenti diseguaglianze.

Più partecipazione alle scelte delle imprese, contrattazione aziendale e territoriale, un sistema formativo che consenta a tutti, anche nel corso della vita lavorativa, di accrescere competenze e occasioni di crescita lavorativa: possono essere le risposte del mondo del lavoro per rimettere in moto l’ascensore sociale.

Attori politici e sindacali possono allora costruire nuovi servizi e strumenti per una società flessibile, ma basata sull’equità e la possibilità per tutti di avere la speranza di migliorare la propria condizione.

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