“Al cuore della democrazia oggi non c’è quello che molti si aspetterebbero. Dobbiamo prendere atto che ci siamo lasciati alle spalle le belle piazze piene di gente che si riconosceva in valori condivisi”. Elena Granata, docente al Dipartimento di Architettura del Politecnico di Milano e vicepresidente delle Settimane sociali dei cattolici in Italia, guarda il presente con un punto di osservazione originale. “Attenti – dice – a letture affrettate che colgono nella società italiana solo quello che manca: le famiglie senza culle, le chiese senza fedeli, le elezioni senza votanti, gli ospedali senza medici”. Perché secondo la prof, che sabato 11 inaugurerà il secondo corso di Formazione all’impegno sociale e politico del Cantiere per Catania e terrà una relazione alla Giornata Sociale diocesana etnea, occorre invece imparare a vedere altre forme di partecipazione, nuovi soggetti che stanno nascendo, magari in forme ancora disaggregate che non aiutano il loro riconoscimento”.  Come ad esempio le realtà giovanili. “Oggi – sostiene la Granata – non sappiamo più dove trovare i giovani nella vita pubblica. Ma forse siamo noi a non sapere più dove cercarli”.



Ha in mente un fatto concreto, professoressa?

Ho davanti agli occhi un’immagine di questi ultimi giorni. I liceali che a Campi Bisenzio erano a spalare con i piedi nel fango e un viso lieto, consapevoli di offrire in quel modo un contributo al bene comune. Questi ragazzi noi li avevamo catalogati come gli “sdraiati”, gli indifferenti e, invece, cercano modi nuovi di partecipare.



Nelle ultime tornate elettorali c’è stato un crollo dei votanti, a cui corrisponde una caduta di interesse verso una presenza nel sociale anche da parte dei cattolici. Perché mai dovremmo riscoprire la partecipazione?

La partecipazione muove sempre da un sentirsi parte di qualcosa più grande di noi. Muove da un desiderio: quello di vivere insieme, di sperimentare la comunità. A volte sono le condizioni oggettive a impedire la partecipazione. Per esempio, il non voto degli studenti fuorisede non è frutto della volontà di non recarsi alle urne, ma della impossibilità di farlo.

Restiamo sul tema dei giovani. La pandemia ha costretto molti di loro a chiudersi nel privato.



Proprio per questo motivo dobbiamo prendere atto che ci possono essere altre forme, rispetto al passato, di partecipazione, forse più disaggregate, con nuovi soggetti.

Molti giovani, infatti, non si riconoscono più nei partiti tradizionali.

La politica oggi per molti di loro non passa più dal partito, ma dalla rigenerazione di luoghi abbandonati o significativi. Là dove i giovani possono lasciare un segno, come dicevo prima delle zone alluvionate in Toscana, lì ci sono e si sbracciano. Faccio solo qualche esempio. Vedo la partecipazione giovanile nelle questioni ambientali, che procurano anche nuovi stili di vita: molti giovani, per quanto loro possibile, usano la bici o non vogliono più sacrificare l’esistenza in tempi di lavoro disumani. Si mobilitano per rigenerare un borgo, come accaduto a Favara in Sicilia.

Eppure le nuove generazioni, soprattutto al Sud, non sono viste come fattore fondamentale dello sviluppo.

È questo il peccato capitale del nostro Paese. Stiamo sprecando i nostri talenti e stiamo perdendo distrattamente tutta una generazione, che soprattutto al Sud sarebbe il vero petrolio.

E, invece, nel Meridione abbiamo assistito per decenni alla lamentela che non possiamo avere sviluppo perché mancano i finanziamenti. E ora che col PNRR i soldi arriveranno, cosa cambierà?

C’è qualcosa di peggio del fatto che non arrivino i soldi: spenderli male, senza cioè risolvere i problemi. La quantità di fondi destinati al Sud è così ingente da mettere ansia. Il problema è spenderli bene.

Cosa serve?

Servono immaginazione e capacità di ritrovare unità e concretezza nei progetti. Serve, inoltre, ricercare fondi anche per una via laterale: penso, per esempio, alle fondazioni bancarie, ma non solo. Quando c’è un limite, occorre trovare altrove la soluzione, se necessario bypassando la politica.

(Giuseppe Di Fazio)

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