Molti giovani italiani soffrono di un male oscuro: l’incapacità di immaginare il proprio futuro. Ciò li terrorizza e ne deprime sia la quotidianità sia le prospettive. Si tratta di un male presente, cambiando le proporzioni, tra i giovani della maggior parte dei Paesi occidentali. Da che mondo è mondo, la generazione che si affaccia alla vita adulta è convinta di poter creare un mondo migliore facendo meglio di quella che l’ha preceduta. E si crea nella mente futuri più luminosi, salubri, pacifici, di sviluppo, insomma meglio del presente. Semplificando, questo anelito è la radice della cosiddetta frattura generazionale, cioè di rabbiose contrapposizioni tra i giovani, almeno fino a una certa età, e i loro genitori.



La propensione ad immaginarsi in un proprio futuro è fisiologica in un giovane. Per rappresentare sé stessi nei possibili futuri, i giovani muovono istintivamente da una propria rappresentazione del presente, e il presente che hanno interiorizzato è ostruttivo, con una varietà di cose che non vanno o non capiscono e spesso fa loro paura. Conviene dire che la paura dei giovani è solo parzialmente razionale, almeno agli occhi degli adulti. Una recente ricerca svolta in Italia (D’Uggento et al, 2024) ha dimostrato che i giovani sono preoccupati per il lavoro che ancora non hanno, per la possibilità di costituirsi una propria famiglia e per il destino della comunità nazionale, nonché per il clima e l’inquinamento globale, ma mostrano minore empatia per i problemi del lavoro, della formazione, della produzione e del reddito della comunità cui appartengono, né per le migrazioni epocali, i conflitti e i problemi dei popoli. In sintesi, sono preoccupati per sé stessi e per un pianeta che sta sullo sfondo, inconsapevoli degli altri problemi del mondo. È facile capire che temono il futuro perché non hanno idea di quale intreccio di elementi sia costituito. Sembra che vivano in una specie di limbo esistenziale.



Varie ricerche svolte nei Paesi occidentali hanno dimostrato che la perdita del futuro è causata (e a sua volta intensifica) disturbi caratteriali, crisi di panico, incremento dell’ansia e della depressione, tentativi di suicidio e addirittura suicidi. Perché dunque così tanti giovani vedono il futuro come una girandola di incertezze, un luogo della mente oscuro nel quale temono posizionarsi, talvolta una fonte di disagio ostica quanto la vita vissuta?

Questa è una domanda difficile per la quale abbiamo solo risposte parziali. Anzitutto, neppure i loro genitori e le generazioni che li hanno preceduti percepiscono il futuro chiaramente. Tuttavia, gli ex-giovani sono passati attraverso scossoni di non poco conto e li hanno in qualche modo superati, dandosi più di 75 anni di pace e progresso economico e sociale dalla fine della Seconda guerra mondiale. In questi anni ci sono stati gli anni di piombo e il terrorismo nazionale, le crisi petrolifere, la guerra fredda, i disastri di Cernobyl e Fukushima, le Torri gemelle e il terrorismo internazionale, travolgenti crisi economico-finanziarie, alluvioni e cicloni drammatici, la guerra in Bosnia, solo per citare la più vicina. Tuttavia, passato lo shock, la gente è tornata a quella “normalità con imprevisto” che per tanti anni ha costituito il quotidiano nazionale.



Le generazioni più avanti negli anni trovano, cioè, normale affrontare gravi e improvvisi shock, dando per scontato che la normalità comprenda l’imprevedibile. Tra gli eventi imprevisti, c’è stata la pandemia: un virus che esisteva da chissà quanti miliardi di anni, probabilmente maltrattato in un laboratorio cinese, ha provocato un disastro di proporzioni immani. Le scienze biologiche, mediche e farmaceutiche sono state in trincea con il proprio arsenale di rimedi e vaccini, ma hanno dimostrato non pochi cedimenti di fronte a quel minuscolo portatore di morte. Il quale, per nostra fortuna, dopo aver imperversato, è ritornato allo stato di sonno antecedente. Poi sono arrivate due guerre, combattute da altri, ma poco lontano delle porte di casa. La guerra in Ucraina è scoppiata praticamente quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato chiusa la pandemia. Quella in Israele è esplosa circa un anno e mezzo dopo, quando quella in Ucraina era nel pieno del confronto militare. Le due guerre sono state altrettante bombe ad orologeria, scoppiate al momento giusto per ricordare che ci sono in giro virus ideologici ben più pericolosi del Coronavirus.

Queste guerre faranno i loro danni, ma finiranno. Tuttavia, credere che, dopo, i problemi siano finiti è pura utopia. Virus di ogni tipo, portatori di disgrazie di varia natura, accompagneranno il nostro futuro. Dobbiamo renderci conto che, anche se la scienza umana continua a progredire, la natura contiene più scienza di quella di cui siamo e saremo mai capaci. Non solo, ma il pianeta è sovrappopolato e l’aggressività umana per appropriarsi delle risorse naturali o umane cresce proporzionalmente. Possiamo solo sperare che gli shock di cui abbiamo dato un impressionistico assaggio si manifestino con cadenze meno ravvicinate tra loro della successione tra pandemia e guerre, lasciandoci almeno il tempo di metabolizzarli.

Nel mondo, i disturbi mentali, l’ansia e la depressione sono aumentati praticamente in ogni categoria di persone e in proporzioni allarmanti tra i giovani. Alcuni studiosi s’illudono che si tratti di strascichi sanitari dell’epidemia (c’è chi li chiama Long-Covid) e non, invece, di una forma di autodifesa, una chiusura a riccio, di fronte alle palesi difficoltà di fare fronte prima al virus e poi alle guerre nazionalistiche e para-religiose. Possiamo discutere se la raffica di shock sociali che ha colpito la nostra società dalla pandemia in poi ne abbia interdetta la capacità di metabolizzare le negatività o se, invece, il ripiegare delle persone in sé stesse sia la nuova forma di resistenza agli shock. È comunque certo che il ripiegarsi limita sia il futuro dei singoli, sia lo sviluppo complessivo della società. Infatti, anche in concomitanza con una fiammata inflazionistica che ha falcidiato i redditi, in Italia sono ulteriormente diminuiti i consumi quotidiani, gli investimenti, la formazione di nuove famiglie, la natalità. In genere, è aumentato ogni comportamento conservatore.

Facciamo di nuovo un passo indietro. Durante la pandemia, il confinamento (“lockdown”) in casa aveva fatto credere sul momento che la riduzione degli acquisti all’indispensabile, il farsi le cose in casa, il coltivare piccole erbe medicinali sul balcone, il minore inquinamento dovuto ai minori viaggi, il minor consumo di alcol e droghe, nonché ritmi meno ossessivi, insomma uno stile di vita un po’ più sobrio e salubre provocato dal confinamento avesse fatto nascere un generale orientamento alla eliminazione del superfluo, una maggiore attenzione ai rapporti interpersonali e in particolare a quelli famigliari, un maggiore rispetto della natura e al benessere fisico e mentale.

Invece, sono passati due anni e tutto ciò è un ricordo. Non solo gli annunci di vita sobria e salubre sono rimasti al livello di una cartolina-ricordo di una gita di fine settimana, ma il confinamento in casa, in congiunzione con le minori relazioni interpersonali, con l’intensificarsi del comunicare e informarsi tramite i social media, col lavoro da casa e soprattutto con la didattica a distanza, ha provocato guai alla vita sociale, alla cultura e alla salute mentale delle persone più fragili, e in modo particolare dei giovani. Insomma, quella resilienza che ci sta facendo diventare sempre più resistenti ai colpi dell’avversa fortuna, sta anche limitando la nostra capacità di migliorare. Significa che, se immaginiamo noi stessi come un contenitore di volontà, siamo capaci di assorbire colpi tremendi con ammaccature apparentemente lievi alla superficie, ma il cui volume interno si riduce un po’ dopo ogni colpo.

Se il futuro che ci attende è “normale con imprevisti”, dobbiamo pertanto imparare a ricondurre gli imprevisti entro una normalità per noi accettabile. Dobbiamo esercitarci ad inserire con la mente eventi imprevedibili nei nostri futuri possibili. Dobbiamo imparare a gestire scenari incerti, comprendenti vari “cigni neri” – come i futurologi chiamano suggestivamente gli imprevisti meno probabili – che si porranno di traverso sulle strade del futuro con maggiore frequenza che nel passato. Oppure, mantenendo il significato che si voleva dare ai cigni neri, incontreremo con una certa frequenza sulla nostra strada cigni neri, oche nere, galli e tanto altro pollame nero.

Per poter gestire l’incertezza, dobbiamo cominciare da subito a ragionare sul futuro, con formazione specifica sul futuro, anche nelle scuole, nonché, al di fuori della scuola, tramite esercizi guidati, possibilmente aventi la forma di giochi, capaci di coinvolgere persone di ogni età e cultura nell’anticipazione del proprio futuro e di quello dello fondo sociale ed economico internazionale e dello sfondo ambientale sia locale sia planetario. I cigni e il pollame nero daranno il senso ai vari scenari di sfondo e costituiranno le sfide da risolvere per abituarci a gestire l’incertezza e le sorprese. Quanto più abili saremo nell’anticipare i futuri possibili, tanto maggiore risulterà la nostra capacità di resilienza.

Dovremo comunque combattere contro due correnti passivizzanti, già presenti nella nostra società: quella del procrastinare, basata sulla supposizione che è meglio ignorare i problemi di un mondo in crescente sovrappopolamento finché non si presentano, anche perché fasciarsi la testa prima di prendere il colpo è ridicolo, e quella fatalista della irrilevanza del fare, dato che, dicono i fatalisti, tutto è già scritto e non esiste soluzione umana ai problemi del mondo. Se è vero che fasciarsi la testa prima di prendere il colpo manca di senso compiuto, è altrettanto vero che non comprare le fasce può fare più male quando arriva il colpo.

Prepararsi consapevolmente ed essere proattivi sono due atteggiamenti idonei a progredire. Come recita l’adagio antico, “freccia previsa vien più lenta”. Più tempo guadagniamo per intuire la direzione della freccia che sibila verso di noi, più probabile sarà che riusciamo a schivarla.

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