Che spettacolo quasi commovente vedere la giovane umanità dei nostri studenti ridestarsi nel desiderio della giustizia, accendersi nel bisogno di affermare la pace. Quale tristezza sarebbe vederli imboccare i vicoli ciechi della contrapposizione, quale tradimento accompagnarli sui sentieri sterili dell’ideologia, già dolorosamente percorsi da altre generazioni.
Le manganellate agli studenti scesi in piazza a Pisa e Firenze contro la reazione militare di Israele agli attacchi di Hamas da parte della polizia, sono un atto grave a cui il presidente della Repubblica ha voluto, da subito, offrire la correzione di un giudizio netto. “L’autorevolezza delle Forze dell’Ordine – ha affermato Mattarella – non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni. Con i ragazzi – ha aggiunto – i manganelli esprimono un fallimento”.
Si tratta di un giudizio che pesca nel profondo. Non sono certamente i manganelli, infatti, lo strumento per frenare l’eventuale intemperanza giovanile. Ciò che occorre, sembra richiamare il Presidente, è un’educazione che offra un’ipotesi positiva con cui guardare alla vita.
E i giovani, lo dicevamo già, hanno un innato senso di giustizia e cercano ideali grandi per i quali spendere la loro esistenza. Per questo spiace constatare il rischio di un uso strumentale del loro slancio da parte degli adulti, dei politici, di docenti. L’ideologia agisce sempre alla stessa maniera: prende una verità particolare e la assurge a verità totale. Ogni volta l’ideologia fa leva sulle polarizzazioni. Divide. Chiede di schierarsi. Pro Palestina. Contro Israele. O viceversa. Non permette che si guardi alla complessità dei fenomeni con uno sguardo organico e realistico. È sempre parziale. Da un lato i buoni, dall’altro lato della barricata gli altri, quelli che non la pensano così.
Spingere i ragazzi verso questo gioco al massacro, in un clima divisivo di polarizzazione, non è certo aiutarli a stare di fronte a quel vertiginoso senso di giustizia, desiderio di verità per il quale sono fatti. Cosa può vincere questa parzialità che divide e separa, che ostacola uno sguardo integrale, capace di cogliere tutti i fattori in gioco?
Abbiamo tutti più che mai bisogno di riscoprire il senso di appartenenza ad un corpo più grande, riconoscendoci l’uno membra dell’altro. In fondo, da cosa si riconosce un popolo? Dalla concordia e dalla comunione delle cose che si amano, direbbe San Tommaso. E noi cosa amiamo? A quale amore invitiamo i nostri figli? I nostri alunni?
Un’educazione che fosse orientata alla mera indignazione sarebbe una grande menzogna. Innanzitutto perché non permette di vedere la realtà per come essa è. Si arresta ad una reattività. Certi drammi del nostro tempo non esigono indignazione. Quando Papa Francesco fece il suo primo viaggio a Lampedusa, proprio all’inizio del suo pontificato, di fronte agli immigrati morti nel mare nostrum non invitò all’indignazione ma domandò a tutti: “Chi di noi piange per questi uomini?”. Il suo fu un invito alla commozione e alla sincera condivisione. L’indignazione è un’ipotesi negativa sulla realtà. Tende a dividere, a sfaldare il legame di amicizia sociale tra i cives.
L’ideologia, negazione suprema dell’amicizia sociale, nasce dalla contrapposizione tra l’io e il tu, dall’idolatria di chi assolutizza parte dell’esperienza e si contrappone all’assolutizzazione di un altro, mentre l’amicizia vera è “il desiderio del bene dell’altro”. Si tratti di palestinesi o di israeliani. Un’educazione che non tendesse a riconoscere, stimare, aver cura e servire ciò che più di profondo unisce gli uomini di ogni latitudine del globo, non potrebbe che contribuire ad incrementare rabbia, odio e rancore.
E tutti sappiamo quanto tutto questo oggi sia l’ultima cosa di cui abbiamo veramente bisogno.
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