Sotto la spinta delle azioni di protesta condotte dalle organizzazioni non violente, e del crescente interesse dei cittadini nei confronti dell’obiezione di coscienza, il Governo approva, nel 1972, la legge che sancisce il diritto all’obiezione per motivi morali, religiosi e filosofici al servizio militare obbligatorio e istituisce, così, il servizio civile sostitutivo.
Nel 1989 una sentenza della Corte Costituzionale parifica, quindi, la durata dei due servizi, militare e civile. Nello stesso periodo incrementa, significativamente, la domanda di adesione al servizio civile obbligatorio da parte di associazioni locali del terzo settore, comuni, università e unità sanitarie locali.
Nasce, quindi, nel 1998 l’Ufficio nazionale per il Servizio civile che riconosce l’obiezione di coscienza quale diritto del cittadino. La gestione del Servizio civile cessa in quel momento di essere competenza del ministero della Difesa e viene affidata alla presidenza del Consiglio dei ministri attraverso l’ Ufficio nazionale per il Servizio civile (UNSC).
Oggi, rispetto a quelle vicende “storiche”, il Servizio civile è diventato, certamente, qualcosa di profondamente diverso e rappresenta, sempre più, uno strumento efficace nell’ottica del potenziamento dell’occupabilità dei giovani oltre che per l’integrazione e la riduzione del rischio di esclusione sociale.
In questa prospettiva si muove lo stesso “Recovery Plan” con una “visione”, almeno secondo i ricercatori di Inapp, autori di uno studio pubblicato nei giorni scorsi, dei giovani non come problema, ma che guarda ai problemi dei giovani “in cerca d’occupazione”. Il rapporto citato ci racconta, infatti, di “un’indice di occupabilità”, strutturato su quattro macro-aree (formazione, attivazione, esperienze, mobilità), che mostra un incremento significativo del 12% per i volontari dopo il Servizio civile.
Inoltre, ben il 60% dei volontari risulta occupato a due anni dall’esperienza, il 50,1% tra i volontari ex-neet. Nello stesso target il tasso di inattivi scende dal 10% all’1,2% e, infine, il 67% dei volontari ritiene l’esperienza del servizio civile utile per il proprio progetto professionale. Il 20% dei ragazzi ha, addirittura, cambiato idea sul proprio futuro durante tale esperienza.
In un quadro più ampio, il percorso verso l’autonomia resta, tuttavia, per molti giovani, un sogno nel cassetto. Secondo un recentissimo studio del Consiglio nazionale dei giovani, ben il 50,3% degli under 35, in Italia, vive infatti ancora con i propri genitori, mentre circa quattro giovani su dieci (38%) vivono da soli o con il proprio partner. In particolare, tra coloro che possono contare su un lavoro stabile il 56,3% riesce a creare un nucleo familiare, un tasso molto superiore rispetto al 33% dei loro coetanei che non può farlo a causa di un lavoro discontinuo.
Un dato, questo, ancora più significativo se si pensa che, nei cinque anni successivi al completamento degli studi, soltanto poco più di un italiano su tre (37%) può contare su un lavoro stabile, mentre il 26% è un giovane “precario” con contratto a termine e un quarto degli under 35 (24%) risulta disoccupato.
In questa nostra “povera patria”, il “nuovo” Servizio civile rischia, insomma, di rappresentare, sempre più, una tappa di crescita e di emancipazione fondamentale nel percorso che porta i giovani a entrare nel “mondo dei grandi”.
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