Il Governo Meloni ha festeggiato i due anni. È arrivato, quindi, come per tutti gli Esecutivi, il tempo di un primo giudizio, delle prime pagelle e, anche, di qualche consiglio non richiesto. Tutto questo senza scordarsi come, ahimè, il nostro Paese abbia alcuni problemi storici e cronici, rispetto ai quali non si può chiedere a nessun Governo, comunque collocato, di trovare una soluzione con la bacchetta magica. Uno di questi, come ci ricorda anche uno studio Inapp pubblicato pochi giorni fa, sembra essere quello dei giovani e del loro, potremmo dire, difficile rapporto con la scuola che produce poi l’abbandono.



L’abbandono precoce, in particolare, rappresenta, probabilmente,  la manifestazione più dirompente del disagio in cui versano studentesse e studenti. L’interruzione di un percorso di studi mette, infatti, a nudo un processo di disaffezione dall’istituzione formativa, le cui cause non sono mai semplici e univoche, bensì rintracciabili in una pluralità di fattori di tipo individuale e sociale, scolastico ed extrascolastico, variamente intrecciati fra loro. Ognuno di questi fattori intercetta, infatti, anche le condizioni di disuguaglianza che caratterizzano i diversi contesti di cui il giovane è partecipe (familiare, culturale, economico, sociale, scolastico e territoriale).



La dispersione formativa ha, quindi, una sua centralità nei processi di (ri)produzione delle disuguaglianze sociali e colpisce più duramente i ragazzi più “deboli” sotto il profilo educativo. Basti pensare che il tasso di occupazione giovanile per chi ha abbandonato gli studi (gli “Early Leaving from Education and Training”) è, nel nostro Paese, pari al 39,0% contro il 57,7% di chi ha conseguito un titolo di studio secondario superiore e raggiunge il 74,6% fra i 20- 34enni che hanno acquisito un livello di istruzione terziaria entro tre anni dal conseguimento del titolo.



La dispersione formativa rappresenta, insomma, una cartina di tornasole delle disuguaglianze sociali e dei principali nodi nevralgici che caratterizzano il nostro Paese: lo svantaggio di alcune aree del Mezzogiorno, dove più diffusa è la povertà (economica ed educativa) e dove si registrano sia tassi maggiori di abbandono precoce rispetto al resto della penisola, sia minori risultati di apprendimento delle competenze di base; lo svantaggio di studentesse e studenti con background migratorio, il cui tasso di abbandono è circa tre volte quello delle ragazze e dei ragazzi “italiani” in senso stretto;  la persistenza di una relazione di continuità fra genitori e figli che abbandonano gli studi nel possesso di bassi livelli di istruzione (al massimo la licenza media), quale segno tangibile dell'”eredità” proveniente dalla famiglia; le maggiori, e note, fragilità sofferte delle donne nell’ambito del mercato del lavoro, nonostante le ragazze permangano più a lungo dei maschi nei circuiti formativi, e, spesso, raggiungano più elevati livelli di istruzione e risultino più performanti dei ragazzi, rispetto a tutti gli indicatori di scolarizzazione.

È forse, insomma, arrivato il tempo in cui la “giovane” Premier metta, anche sul piano più strettamente “politico”, maggiormente al centro della sua azione i ragazzi, e le ragazze, a partire dai tanti (ancora troppi) più fragili e che rischiano, senza un aiuto, di scivolare velocemente verso l’emarginazione sociale,  che rappresentano, è bene non dimenticarcelo, il presente, e non solo il futuro, della nostra nazione.

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