Si racconta, leggenda o storia che sia, che in occasione dell’arrivo in Italia di Hitler, Benito Mussolini per impressionare l’Alleato avesse organizzato un’imponente parata come prova della forza militare italiana in terra, nel mare e nell’aria. Hitler rimase impressionato soprattutto dal numero di aerei esibiti. Ma non si era accorto del sotterfugio orchestrato dal Duce, il quale aveva ordinato di far passare uno dopo l’altro sempre gli stessi aerei, imbrogliando così sul numero complessivo. L’effetto dell’operazione è intuitivo: se si hanno dieci aerei, ma li si fanno sfilare per dieci volte consecutive, si dà l’impressione che siano cento. E i tedeschi che, per indole, non avrebbero mai fatto un’operazione truffaldina, ci cascarono. Noi, invece, non abbiamo mai smarrito la vocazione a imbrogliare con i conti. Prendiamo per esempio un tema molto dibattuto come il mercato del lavoro (con annesse le questioni dell’occupazione, delle retribuzioni e della povertà): le statistiche si riferiscono a grandi ripartizioni legate alle diverse tipologie della condizione di lavoro, ciascuna delle quali viene classificata – a seconda della particolari fasi storico/economiche – con un valore assoluto e percentuale. Ma se si approfondiscono i dati ci si accorge che vi sono settori di lavoratori che appartengono a più di una classificazione e che, pertanto, vengono contati più volte.
Noi siamo indotti da una lettura a canne d’organo delle statistiche a considerare come corpi separati, vere e proprie “monadi senza porte né finestra” le platee dei disoccupati, dei Neet, dei lavoratori irregolari, mentre si tratta di realtà che si mescolano e si giustappongono. Prendiamo il caso dei Neet che a lungo è stato ritenuto un fenomeno a sé e che nuove indagini, invece, tendono a riportare nell’ambito del lavoro irregolare e quindi a un’area di parziale autonomia economica.
Ma prima prendiamo in considerazione i dati di ottobre riferiti alle grandi ripartizioni occupati/disoccupati: rispettivamente 24 milioni 92mila i primi e 1 milione 472mila i secondi. A questi vanno aggiunte 2 milioni 986mila di unità irregolari. Gli inattivi vengono contati in numero pari a 12.538.000. Il risultato finale è pari a 41milioni e 88mila. Ma la popolazione in età lavorativa (15-64 anni) nel 2024 è pari a 37.428.227. Anche ammettendo che tra queste ripartizioni vi siano degli sconfinamenti, la discrepanza è evidente: vi sono – come abbiamo anticipato prima – poco meno di 4 milioni di lavoratori che vengono contati più volte. Innanzitutto va osservato che – stando all’occupazione regolare – su circa 38 milioni di italiani in età da lavoro sono occupati solo 24 milioni: nessuna economia sviluppata ha un tasso così alto di inattivi.
Verrebbe da chiedersi come trascorrono le loro giornate tante persone giovani. Negli ultimi mesi sono state pubblicate indagini sociologiche, anche di diverso orientamento, ma che aiutano a individuare non solo gli aspetti strutturali del fenomeno complesso, ma ad avvicinarsi a comprenderne le motivazioni senza accontentarsi delle generiche analisi circolanti tra le quali la frustrazione maturata a causa delle difficoltà di un accesso adeguato che scoraggerebbe i giovani ad attivarsi preferendo invece prendersi una “pausa”. Per anni abbiamo attribuito questo fenomeno a un’insufficiente domanda di lavoro da parte delle imprese; ora – sia pure con alcune residue contraddizioni – sappiamo che il rapporto si è invertito e che la crisi si è spostata sull’offerta. E non c’è contraddizione tra l’incontro di due insoddisfazioni: quella delle imprese che cercano determinate professionalità non reperibili a sufficienza sul mercato del lavoro e quella di giovani che ambirebbero a svolgere professioni che invece non offrono adeguate possibilità di impiego.
Alla base di questa discrepanza vi sono anche le carenze dell’orientamento scolastico che finiscono per racchiudere nell’ambito della famiglia o del giro di amicizie la scelta formativa, a conclusione dell’obbligo, che condizionerà tutta la vita del ragazzo. Pare evidente che questa dissociazione sia presente in questa fase e che la “pausa” non assicuri l’avvento di tempi migliori, ma finisca per non includere nel mercato del lavoro molti giovani che rimangono in attesa di opportunità che non arriveranno più.
Secondo una ricerca della Cgil, l’88% di giovani che non studia e non lavora ha un livello di istruzione medio-basso. In particolare, il 51% ha un diploma – di scuola superiore di secondo grado (44%) o di qualifica professionale (8%) -, il 33% ha la licenza media e solo il 13% ha una laurea triennale o un titolo più alto. I dati Istat rivelano quindi che il titolo di studio può incidere sulla probabilità di entrare o uscire dalla condizione di Neet. Evidenziano, inoltre, un’importante correlazione tra la tendenza a ricadere in una condizione di inattività e il livello di istruzione medio-basso.
Poi c’un altro aspetto. Il ricorso al lavoro non regolare da parte di imprese e famiglie è e resta una caratteristica strutturale del mercato del lavoro italiano. E qui cominciano i punti di contatto. Nel rapporto Lost in Transition del Consiglio nazionale dei Giovani viene tracciato un quadro molto diverso da quello consueto. Pur confermando che, a livello ufficiale, poco più di due milioni di giovani non studia e non lavora, il rapporto qualifica questa cifra con dettagli che assumono una grande importanza per chiarire quale sia la natura del fenomeno Neet in Italia. Lost in Transition riporta infatti che, stando ai dati raccolti, l’88,9% dei Neet italiani che vivono nelle città e quasi il 75% di quelli che vivono nelle aree interne ha o avrebbe avuto di recente un lavoro. Questi impieghi, però, non emergono nelle statistiche ufficiali perché in buona parte si tratta di lavori irregolari, senza contratti e senza una retribuzione a norma di legge. Come riassume lo stesso rapporto, si tratta quindi di lavoro nero.
Non si può parlare però soltanto di lavoretti. Il 50% dei Neet nelle aree urbane dichiara di essere economicamente indipendente; in quest’ambito la percentuale dei Neet con diploma di laurea o accademico nelle aree urbane sale oltre il 63%. Dati questi che non sono confortanti per quanto riguarda la situazione sociale dei giovani italiani e rimangono comunque gravi dal punto di vista economico. Una fascia significativa della popolazione attiva, tra quella che dovrebbe essere maggiormente coinvolta nell’attività economica, è relegata a un ruolo marginale. I lavori saltuari, senza contratti e garanzie, comportano un’incertezza che compromette i progetti futuri di queste persone e ha impatti seri su diversi aspetti della società italiana, dai consumi fino allo sviluppo di una famiglia e alla crisi delle nascite.
Bisogna però considerare tutto, in particolare quando si evocano gli standard di povertà. Il lavoro sommerso va contrastato, ma il reddito che ne deriva non può essere espunto dalla risorse disponibili per i consumi e le ordinarie esigenze della vita quotidiana. Se si osserva (dati Istat) la composizione dell’economia non osservata, si possono notare la consistenza e l’incidenza del lavoro irregolare (positivamente collocato in un trend di riduzione, ma comunque significativo (68 miliardi nel 2021).
La quadratura del cerchio che rivela un Paese che finge di essere ciò che non è la realizziamo osservando come si è redistribuito il carico fiscale Irpef fra le varie fasce di reddito negli ultimi 15 anni. È rimasta sostanzialmente invariata la quota di contribuenti che effettivamente sostiene il Paese con tasse e contributi, e di contro è troppo alta quella di cittadini totalmente o parzialmente a carico della collettività: infatti, malgrado il miglioramento il e occupazione, il 45,16% degli italiani, apparentemente è privo di redditi e di conseguenza vive a carico di qualcuno. Su 42 milioni di dichiaranti, poi, il 75,57% dell’intera Irpef è pagato da circa 10 milioni di milioni di contribuenti, mentre i restanti 32 ne pagano solo il 24,43%.
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