Nonostante l’Italia abbia raggiungo la soglia del 60% del tasso di occupazione non c’è dubbio che il tema del lavoro sia oggi una delle grandi emergenze del Paese. Restano poche le donne che lavorano, troppi i giovani che non lavorano né studiano; il drammaticamente basso tasso demografico ci ricorda che rischiamo di diventare un Paese dove mancherà la forza propulsiva per lo sviluppo futuro e la capacità di sostituire i lavoratori che andranno in pensione.
Certamente un mercato del lavoro ingessato in cui le politiche pubbliche ripetono vecchi schemi rigidi e statalisti non aiutano. Ma c’è una radice più profonda di questa crisi. È l’idea stessa del lavoro che è in crisi; fenomeni come la crescita delle dimissioni volontarie o la scelta di lavori che “rubino” il minor tempo possibile alle persone o ancora l’avversione all’alternanza scuola lavoro, sono indice di un cambiamento di mentalità.
Sembra che per tutti e per i giovani in particolare, il lavoro non sia più una delle modalità principali attraverso cui si realizza se stessi, si esprime il proprio talento, si costruiscono risposte per il bene di tutti. Lavorare non è più “fare un uomo al tempo stesso di una cosa” come diceva Emmanuel Mounier.
Dobbiamo interrogarci senza pregiudizi e senza paure su questi fenomeni, servono meno analisi sociologiche e più capacità di guardare noi stessi e gli altri indagando la profondità dei nostri desideri e delle nostre paure; paure che sono cresciute enormemente durante la pandemia che ha rivelato la nostra fragilità e che rischiano di essere accentuate dalle grandi crisi socio-politiche e dai rischi economici a esse collegati.
I desideri più profondi del cuore dell’uomo sono sempre gli stessi in ogni età, in ogni luogo e in ogni tempo, ma oggi questo desiderio, soprattutto nei giovani, non sembra trovare risposte nelle circostanze quotidiane. Fanno grandi battaglie (il clima, i diritti individuali, ecc.), ma poi è come se dominasse un’ultima tristezza piena di rassegnazione. È quindi innanzitutto una sfida umana e culturale che chiama in causa le famiglie, le istituzioni, le imprese e ciascuno di noi.
Storicamente le tre matrici culturali – quella liberale, quella cattolica e quella “laburista” – hanno saputo costruire un campo in cui lavoro e sviluppo si sono coniugati, in cui realizzazione di sé e benessere diffuso sono andati a braccetto. Oggi serve un nuovo scatto per costruire insieme una visione futura del ruolo del lavoro nella nostra società.
La storia insegna che le epoche senza lavoro sono state caratterizzate dal prevalere della rendita fondiaria, dall’appartenenza a una classe, dalla guerra, dalla schiavitù; tutte situazioni in cui cresce la diseguaglianza, diminuisce il reddito medio, si blocca l’ascensore sociale.
Oggi esiste una corrente di pensiero diffusa sia tra i movimenti populisti, sia tra numerosi pensatori tecnologici, che il lavoro possa essere sostituito senza colpo ferire dal reddito, da una qualsiasi altra forma di reddito, eventualmente provvista dallo Stato. Un’affermazione del genere ignora del tutto il ruolo basilare che il lavoro ha rivestito nell’era moderna per la costruzione delle identità individuali e sociali, per la creazione di meccanismi virtuosi di mobilità sociale ed emancipazione, per garantire la partecipazione alla vita pubblica di masse crescenti di cittadini.
E questo il tema dell’incontro di oggi al Meeting di Rimini sul futuro del lavoro. La domanda da cui partiamo è: come un’impresa, grande o piccola che sia, può dare il suo contributo a ritrovare il gusto del lavoro? Come i corpi intermedi come le associazioni o il sindacato possono coinvolgere le persone facendole sentire protagoniste della costruzione del loro futuro?
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