I dati messi in fila dalla Fondazione Nord Est sono impietosi: 550mila cancellazioni anagrafiche di giovani che se ne sono andati dall’Italia nel periodo dal 2011 al 2023, dei quali solo 172mila sono tornati. E quelli della Banca d’Italia, che parla di 525mila giovani trasferiti tra il 2008 e il 2022, confermano il fenomeno. Una realtà che queste cifre probabilmente descrivono per difetto, perché molti, pur recandosi all’estero, mantengono la residenza in Italia. Anche dopo il Covid, che aveva frenato l’esodo, sono salpati per altri lidi 100mila under 35.
La fuga dei cervelli è un trend che prosegue da anni e non si arresta, eppure è uno degli aspetti su cui bisogna intervenire per ovviare ai problemi dovuti al calo demografico, che mette in pericolo la tenuta sociale ed economica del Paese. Per venirne fuori, spiega Gian Carlo Blangiardo, già presidente dell’Istat, docente emerito di demografia nell’Università di Milano Bicocca, occorre che tutti (Stato, imprese, sindacati, famiglie) offrano ai ragazzi la possibilità, attraverso norme ad hoc, incentivi o altri strumenti, di aderire a un progetto che possa far realizzare i loro sogni professionali in Italia. Un piano capace di riconoscere il merito sia dal punto di vista dell’avanzamento lavorativo sia da quello economico.
I numeri non danno alibi: l’Italia non riesce più a trattenere i suoi giovani. Appena hanno un’opportunità di andare all’estero, la sfruttano. Quali sono le ragioni di questa tendenza?
In termini tecnici è un salasso. Il sistema universitario e formativo funziona, c’è la capacità di formare giovani competenti, ma non quella di dare loro ciò che legittimamente si aspettano. Studiano per un’attività e poi si accorgono che non hanno la possibilità di svolgerla o che non è come ci si aspettava che fosse. Se le aspettative non corrispondono alla realtà dei fatti, aprono le orecchie: nel sistema europeo, negli Stati Uniti, all’estero in generale, c’è chi può offrire loro l’occasione giusta. Quando sono fuori dai confini, si accorgono che il sistema è attento al merito, che si occupano di quello che volevano e decidono di rimanere. Quello che poteva essere un progetto temporaneo, una volta inseriti nel sistema, diventa di lunga durata.
Gli ultimi dati Istat dicono che l’occupazione va bene, ma che l’inserimento dei giovani rimane un problema. Qual è il punto? Manca il lavoro, lo stipendio non è sufficiente, non viene riconosciuto il valore di certe professionalità?
Un mix di queste cose: manca il tipo di lavoro, non c’è il giusto riconoscimento economico. I giovani si trovano di fronte a un impiego per il quale hanno studiato come matti per prendere 1.200 euro al mese. L’occupazione sta vivendo un periodo glorioso, siamo arrivati ad avere il maggior numero di occupati degli ultimi anni, il tasso di disoccupazione si è abbassato, ma i giovani mettono insieme una serie di concause e, a conti fatti, se qualcuno offre loro un posto in Germania o in Svizzera, lo accettano.
Secondo i dati della Fondazione Nord Est, la regione con il maggior saldo negativo tra giovani che vanno all’estero e quelli che tornano è la Lombardia (-5.760 nel 2023). Come mai proprio in una delle aree considerate più all’avanguardia del Paese i numeri sono più consistenti?
La Lombardia ha 10 milioni di abitanti, la Calabria quasi 2 milioni: il numero assoluto dei lombardi è superiore a quello dei calabresi. Ma ci sono anche altri fattori da tenere in considerazione. In Lombardia c’è un’alta produzione di laureati perché ci sono molte università e flussi migratori interni di giovani che dal Mezzogiorno vengono a Milano a studiare. Se questi poi vanno a Londra, risultano lombardi che sono andati da un’altra parte. La Lombardia, però, ha la capacità di attirare manodopera e studenti da altre parti d’Italia.
Quello dei giovani che vanno all’estero è uno degli aspetti del calo demografico che sta segnando la storia italiana negli ultimi decenni. Cosa bisogna fare per convincere chi spesso è laureato o ha competenze di alto livello a tornare oppure a rimanere nel nostro Paese?
Questo è uno dei fattori che agiscono sulla perdita di popolazione. Parliamo di persone che hanno raggiunto un alto livello di istruzione e per le quali il contribuente ha investito: le tasse universitarie non compensano il costo della formazione. Noi abbiamo pagato per preparare questi giovani e poi la loro capacità viene sfruttata da altri fuori dall’Italia. Non è una strategia vincente. Bisognerebbe offrire al mondo giovanile garanzie di un investimento nel loro successo professionale, far comprendere che, con la gradualità necessaria, il sistema produttivo può offrire possibilità di inserimento e prospettive.
Insomma, su cosa si deve puntare?
Quello di cui hanno bisogno i giovani è di sogni realistici: a loro piace immaginare un percorso, dobbiamo prenderli per mano mostrando i successi che possono conseguire a mano a mano, ma anche il premio finale verso il quale tendere. E che è realistico crederci. Questo attraverso un sistema di norme, di incentivi e un atteggiamento culturale più generale che venga incontro alle loro esigenze.
Una questione di norme o anche di sensibilità del sistema imprenditoriale?
Non c’è qualcuno che risolva tutto. Esistono le imprese, la politica, la cultura, le famiglie, i sindacati, tutti devono dare una mano, condividendo l’obiettivo, magari sacrificando qualcosina. Le imprese avrebbero l’interesse a tenere i salari bassi, ma i premi di produttività, di risultato, possono incidere. Il sistema produttivo, ma anche la pubblica amministrazione, deve premiare il merito, facendo in modo che si possa ottenere un riconoscimento anche economico in funzione delle proprie capacità.
(Paolo Rossetti)
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