Giovanni Falcone è stato un magistrato italiano, vittima di Cosa nostra in Italia. Il magistrato perse la vita nella Strage di Capaci insieme alla moglie Francesca Morvillo e a tre uomini della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Era il 23 maggio 1992 e stava tornando da Roma come era soliuto fare nel fine settimana. Insieme a Paolo Borsellino, amico d’infanzia e che dichiarò di aver perso un fratello, è una delle personalità più importanti della magistratura italiana. Nonostante fosse consapevole dei rischi che correva, non si fermò portando avanti la lotta alla mafia. Partecipò al progetto del cosiddetto pool antimafia che nacque dall’idea di Rocco Chinnici insieme a Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello. La lotta alla mafia subì una svolta con l’arresto di Tommaso Buscetta che decise di collaborare con la giustizia.



Giovanni Falcone e l’incontro con Tommaso Buscetta

Giovanni Falcone, dopo l’arresto di Tommaso Buscetta e la sua decisione di collaborare con la giustizia, lo incontrò diverse volte per interrogarlo. “Non sono un infame. Non sono un pentito. Sono stato mafioso e mi sono macchiato di delitti per i quali sono pronto a pagare il mio debito con la giustizia”, disse Buscetta a Falcone quando lo incontrò. Nel corso degli anni, i pericoli furono sempre più grandi e Falcone, ad un certo punto, si rese conto del rischio che stava correndo. Il 12 gennaio 1992, ospite di una trasmissione di RaiTre, rispondendo alla domanda di una persona del pubblico, in riferimento all’attentato dell’Addaura che subì 3 anni prima, disse: «Questo è il paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa e la bomba per fortuna non esplode, la colpa è la tua che non l’hai fatta esplodere». Pochi giorni prima della Strage di Capaci, ai colleghi, aveva detto: “Mi hanno delegittimato, stavolta i boss mi ammazzano“.

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