Quando in musica si incontrano visionari eretici succedono belle cose e in Ojos de Gato (ed. Cam Jazz), l’ultimo nato del pianista umbro Giovanni Guidi, ne succedono parecchie. Andiamo per bozzetti, tentando una sintesi, e graffiamo qualcosa dalle biografie di Gato Barbieri, James Brandon Lewis e Giovanni Guidi. Latitudini diverse, cronologie dissonanti, sotto due fortissimi comuni denominatori: la primazia della musica come sineddoche della vita e la militanza civile espressa in difesa dei diritti dei più deboli. Non esattamente banalità sulle quali incardinare una carriera.
Strano tipo Gato Barbieri, che è morto già da cinque anni. Noto per lo più in Italia come autore della colonna sonora di Ultimo Tango a Parigi, è stato una figura apicale del free jazz già dai ‘60: sedotto da Coltrane e Pharoah Sanders, fu sodale di Don Cherry e poi membro della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden. Musicalmente parlando, resta strepitosa la sua voce di devastante soffiata dentro lo strumento, col quale ha coniugato la centralità della melodia con esplorazioni nei mondi atonali e modali; politicamente parlando, basterà ricordare che in Third World del ’69, alla fine della suite dedicata alla figura di Antonio Das Mortes (da persecutore a sostenitore dei cangaceiros), canta: “Il potere del popolo è più forte”.
Strano tipo anche James Brandon Lewis, debordante tenorsassofonista statunitense, che – non sapendolo come prendere – semplicemente viene citato come una promettente nuova leva del jazz. E invece, oltre a esserlo già da un pezzo e con la benedizione di Sonny Rollins, JBL, classe 1983, è lui stesso un riferimento per i giovani musicisti da almeno un decennio. Fraseggio torrenziale, dinamico e poliedrico (jazz, funk, r&b sono casa sua), da un paio d’anni ha messo su un duo militante con un poeta e docente americano, Thomas Sayers Ellis, col quale presenta un progetto su Amiri Baraka, intellettuale e attivista marxista scomparso nel 2014, che si chiama senza tanti fronzoli: “Heroes are gang leaders” (da un racconto del ’67 di Baraka).
Strano strano tipo Giovanni Guidi da Foligno, che ha preso gli stilemi espressivi di Barbieri, ha reclutato Brandon Lewis da Buffalo e, annettendosi in un sestetto esplosivo mammasantissima come Gianluca Petrella al trombone, Brandon Lopez al contrabbasso, Chad Taylor alla batteria e Francisco Mela alle percussioni, ha sfornato un disco lunare. Non che il pianista e compositore nostrano viva la sua biografia musicale in modo più edulcorato da visione politica, considerato che non perde occasione (dalle interviste ai suoi interventi social) per abbracciare la causa dei diritti civili, tutti i diritti civili, con determinazione rocciosa e forza incrollabile.
Il risultato è un album di grande impatto sonoro, dove le undici composizioni – tutte originali e arrangiate da Guidi – producono un senso di significativo straniamento e inquietudine. Catene di idee che nascono dentro l’evocato contesto timbrico del Gato ma finiscono nei territori della contemporaneità, tra spunti improvvisativi e aperture ritmiche. Ogni tanto affiora qualche citazione di tema o risuona una cellula melodica del musicista argentino: sono le bussole dentro una mappa fatta di geografie simboliche (Roma 1962, Buenos Aires, Paris Last) e snodi tematici (Revolucion, Padres, Ernesto). Alla fine, vien quasi da pensare, in un delirio discronico, che si sia alle prese con un album fresco di stampa, direttamente dalle martoriate ance di Barbieri, tanto il sestetto riesce a ricreare il mood di quegli album incredibili (da Bolivia ad Under Fire).
In questo senso, Guidi si mette sulla lunga strada maestra della storia di questo genere, che ha lottato per i diritti, celebrandoli con la complessità del linguaggio musicale; il jazz anzi è, per natura, un fatto politico, nel senso di vocazione al senso della collettività, e riscoprirlo in questo viaggio dentro la musica di Gato Barbieri è un’occasione importante per tornare a considerarlo tale.
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