Il 27 luglio 1992, anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio, a Catania fu ucciso l’ispettore di Polizia Giovanni Lizzio. Primo poliziotto ucciso da Cosa nostra nel capoluogo siciliano, assassinato appena 8 giorni dopo l’attentato in cui, a Palermo, morirono il giudice antimafia Paolo Borsellino e 5 membri della sua scorta.



Giovanni Lizzio – la cui storia è al centro della puntata di Cose Nostre in onda su Rai 1 oggi, 2 settembre, in seconda serata – era ispettore capo della Squadra mobile della questura catanese, responsabile della sezione antiracket e aveva soltanto 45 anni. Fu colpito a morte di sera nel quartiere Canalicchio, raggiunto da una pioggia di fuoco mentre era fermo in macchina ad un semaforo di ritorno a casa dopo una giornata di lavoro.



La ricostruzione dell’omicidio di Giovanni Lizzio

L’ispettore di Polizia Giovanni Lizzio era a bordo della sua auto quando un commando composto da 4 sicari lo avrebbe accerchiato e colpito a morte con una scarica di proiettili. Raggiunto prima ad un braccio e poi alla testa, morì poco dopo l’arrivo n ospedale.

Sposato e padre di due figlie, era il poliziotto più conosciuto di Catania ed era noto per la sua grande conoscenza delle dinamiche, vecchie e nuove, di Cosa nostra. La sua carriera in divisa era iniziata a Napoli. Il 18 luglio, 9 giorni prima di morire, nelle 24 ore precedenti alla strage di via D’Amelio, aveva portato a termine una vasta operazione antimafia sfociata nella cattura di 14 uomini del clan Cappello.



Inviso ai mafiosi per la sua attività investigativa e per il grande lavoro che lo aveva visto raccogliere le dichiarazioni di diversi pentiti, il poliziotto per la mafia era diventato un pericolo da neutralizzare. Nelle case di alcuni mafiosi, secondo quanto poi emerso, la sua morte fu accolta da brindisi e festeggiamenti.

Giovanni Lizzio ucciso da Cosa Nostra: la vicenda giudiziaria

L’iter giudiziario riguardante l’omicidio di Giovanni Lizzio si concluse con la condanna in via definitiva all’ergastolo del boss Benedetto “Nitto” Santapaola. La sentenza, nel processo per accertare le responsabilità come mandante, arrivò nel 1996.

Il caso venne riaperto dopo le dichiarazioni rese dai pentiti Natale Di Raimondo e Umberto Di Fazio, perché fornirono nuovi elementi per l’individuazione degli esecutori materiali. Si autoaccusarono dell’omicidio dell’ispettore e all’esito dei due processi seguenti furono stabilite le seguenti condanne: 12 anni di carcere con rito abbreviato per i due pentiti, 30 anni a Francesco Squillaci e Giovanni Rapisarda, poi assolto in appello. Nel 2009, l’assoluzione di Filippo Branciforte e Francesco Di Grazia dopo le accuse di essere stati parte del commando.