“Il cuore della sostenibilità è il rispetto tra le generazioni. Il concetto dello sviluppo sostenibile si basa sul consentire alla generazione attuale di soddisfare i propri bisogni senza pregiudicare il fatto che le generazioni future facciano altrettanto. L’Italia, e non solo l’Italia, ha violato sistematicamente questo principio, scaricando sulle generazioni future un enorme debito pubblico, continuando a inquinare e a distruggere il capitale naturale, creando diseguaglianze sempre più profonde. Bisogna invertire questo trend cambiando il modello di funzionamento delle nostre economie e delle nostre società. Per questo noi insistiamo nel voler introdurre nella Costituzione italiana il principio dello sviluppo sostenibile. Ma poi bisogna far sì che tutte le politiche siano orientate in questa direzione”. E’ l’auspicio di Enrico Giovannini, docente di Statistica economica all’Università di Roma Tor Vergata e portavoce dell’ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile), che parteciperà oggi a un doppio appuntamento: alle 12 (Arena Sussidiarietà&Lavoro B1) sarà tra i relatori dell’incontro “Al cuore della sostenibilità”; alle 19 (Arena internazionale A3) interverrà sul tema “L’Europa dopo le elezioni e l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”.



L’ultimo Rapporto dell’ASviS si apriva l’anno scorso con le sconsolate parole “non ci siamo”, l’Italia non è un Paese sostenibile. Da allora qualcosa è cambiato? O sulla sostenibilità siamo ancora tra i fanalini di coda dell’Europa?

A febbraio, per la prima volta, abbiamo fatto un’analisi della Legge di Bilancio 2019, da cui sono emersi alcuni elementi positivi. Penso al Reddito di cittadinanza, che dovrebbe ridurre la povertà, in particolare quella assoluta, non eliminarla, perché la povertà è un concetto molto più ampio della mancanza di reddito. Penso anche ad alcuni interventi sull’ambiente o sulla protezione delle biodiversità. Ma c’è un grande ma.



Quale?

Come segnalato anche in occasione dell’analisi della Legge di Bilancio 2019, è mancata, e manca, una visione d’insieme, che disegni un percorso per l’Italia da qui al prossimo quinquennio e al 2030.

Può citare qualche esempio concreto?

L’Istat nel suo Rapporto annuale ha mostrato che una grandissima impresa impegnata per lo sviluppo sostenibile ottiene guadagni in termini di produttività dell’ordine del 15% rispetto, a parità di altre condizioni, alle imprese di uguali dimensioni non impegnate in tal senso, del 10% se è una grande impresa e del 5% se è media. Ebbene, la parola economia circolare era sostanzialmente assente nell’ultima Legge di Bilancio, essendo invece questa una delle componenti più dinamiche del sistema economico. Altro esempio, sul tema dell’innovazione tecnologica: in Italia la capacità di usare adeguatamente le nuove tecnologie è bassa anche perché manca un programma serio di formazione continua degli adulti. Questo fa sì che tanti consumatori italiani non siano in grado di utilizzare i beni e i servizi più avanzati e dunque le imprese italiane che realizzano quel tipo di prodotti sono penalizzate. E potrei continuare.



Visto che nel 2020 mancheranno solo dieci anni alla scadenza dell’Agenda 2030, su quali temi l’Italia deve accelerare di più per recuperare terreno?

Siamo molto indietro, in primo luogo, sulle variabili economiche e sociali. La crisi ha lasciato segni profondi e quindi abbiamo un tessuto economico più sfilacciato, soprattutto a causa del peggioramento della redistribuzione del reddito e della ricchezza che ha colpito innanzitutto i giovani. Se trent’anni fa la povertà riguardava soprattutto gli anziani, oggi è concentrata tra i minori e i giovani. Si tratta di una pessima notizia, perché chi è povero in gioventù o addirittura nell’infanzia ha un’altissima probabilità di esserlo anche nell’età adulta.

Rispetto ai target dell’Agenda 2030, dove si registrano altri gap da colmare?

Sull’ambiente abbiamo fatto passi avanti su certi fronti, ma abbiamo peggiorato la qualità dei nostri ecosistemi, anche perché abbiamo consumato tantissimo suolo negli ultimi 20 anni con effetti negativi, soprattutto alla luce dei cambiamenti climatici. Dove siamo più avanti di altri Paesi è sulla quota di energia rinnovabile rispetto al totale, sebbene non sappiamo ancora come arrivare al 2030 o al 2050 con un “giusto” processo di decarbonizzazione.

Si segnalano altri buoni progressi?

Sull’educazione, anche se abbiamo ancora un altissimo tasso di abbandono scolastico e troppi pochi laureati, e sulla salute, sebbene le disuguaglianze nell’accesso alle cure restino ancora molto forti.

Un quadro a luci e ombre, insomma?

L’Agenda 2030 è molto complessa e le luci e le ombre vanno inquadrate in un disegno integrato. Su questo l’Italia ha di fatto perso quattro anni, perché non si è data una struttura forte di governance delle politiche per la sostenibilità. Nelle ultime settimane era stata finalmente avviata la cabina di regia per il coordinamento delle politiche istituita dal governo Conte su una direttiva approvata dal governo Gentiloni. Una struttura che speriamo sopravviverà ai cambiamenti che interverranno in seguito alla crisi politica. Così come ci auguriamo che verrà presa in considerazione la richiesta dell’ASviS che, dopo avere realizzato un’analisi comma per comma della Legge di Bilancio 2019 alla luce dei 169 target dell’Agenda 2030, ha proposto che tutte le iniziative legislative siano corredate da una relazione illustrativa in modo da poterne valutare l’effetto in termini di Agenda 2030.

In questi giorni di crisi si parla molto di un possibile governo giallo-rosso, tra i cui punti fondanti c’è proprio “lo sviluppo basato sulla sostenibilità”. Secondo lei, un governo Pd-M5s, che tra l’altro ha firmato il decalogo dell’ASviS, potrebbe dare slancio e coerenza alle politiche di sostenibilità?

Spero che qualunque governo si formi, ora o in futuro, ponga questi temi in alto nella propria agenda. Anche perché le dichiarazioni programmatiche della nuova presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, vanno tutte in questa direzione. Ha proposto un European Green Deal, un grande piano di investimenti verso la transizione energetica; ha promesso la creazione di un fondo per la “transizione giusta” per decarbonizzare l’Europa offrendo nuove opportunità occupazionali; ha immaginato che il semestre europeo sia costruito intorno all’Agenda 2030, come suggerisco da almeno tre anni. Se l’Europa andasse davvero in questa direzione per diventare il continente campione mondiale di economia circolare, non avrebbe senso che il nostro Paese si muovesse in direzione opposta.

Il 2019 è l’anno di Greta. Perché la società civile dimostra grande sensibilità ai temi della sostenibilità, mentre la politica sembra più distratta?

Un sondaggio pubblicato a gennaio, quindi prima degli scioperi globali per il clima degli studenti, mostrava che tra i 17 Goal dell’Agenda 2030 il cambiamento climatico era considerato dagli italiani il problema più urgente da affrontare. A fronte di questa evidente sensibilità, è chiaro che la risposta a questi temi importanti, impellenti e urgenti è molto complessa. E – come dice qualcuno – i politici non amano parlare delle cose per cui non possono millantare di avere una soluzione a disposizione. A parte la battuta, non c’è dubbio che l’Agenda 2030 abbia una sua complessità di pensiero di fondo e di articolazione. La lotta al cambiamento climatico, ad esempio, investe politiche economiche, sociali, ambientali. Non basta un provvedimento singolo, dunque, ma provvedimenti integrati e che tengano conto della complessità e delle interazioni dei fenomeni. E tutto ciò non è semplice da comunicare con un tweet.

Perché la sostenibilità è vista ancora come un costo e non come un investimento?

Il Rapporto Istat che citavo prima mostra come le imprese abbiano ormai capito che la sostenibilità è un investimento necessario. E anche le famiglie italiane stanno sempre più scegliendo prodotti sostenibili, perché meno impattanti sull’ambiente e più rispettosi dei diritti umani. A tal proposito, dal 28 settembre dovrebbero partire i “Saturdays for future”, iniziative per invitare produttori e consumatori a rendersi conto che la transizione verso un modo diverso di produrre e di consumare è un’opportunità già oggi.

Si parla molto di autonomia differenziata. Secondo lei, lo sviluppo sostenibile può essere una competenza regionalizzata?

Il quadro dell’Agenda 2030 richiede l’attivazione di tante politiche nazionali, ma anche di quelle regionali e cittadine. La governance per lo sviluppo sostenibile è complessa e il punto chiave è come includere tutto in un disegno coerente. E’ il compito che la cabina di regia presso Palazzo Chigi, citata prima, avrebbe dovuto avere. E’ chiaro che il problema dell’energia travalica la città e anche la regione, direi pure lo Stato, perché in ottica europea le reti devono essere transnazionali e continentali, ma ci sono tante altre politiche a livello regionale e anche di competenza delle città, come i trasporti urbani. Proprio per questo abbiamo riproposto la ricostituzione del Comitato interministeriale per le politiche urbane, perché di fatto l’Italia non ha una strategia nazionale per le città, così che ogni sindaco può decidere, per esempio, di chiudere il centro storico alle auto nel 2020, nel 2022 o nel 2025. Non ha senso.

La Banca d’Italia a maggio ha deciso di privilegiare nelle proprie strategie d’investimento proprio gli investimenti sostenibili. Qualche giorno fa il Business Roundtable, che riunisce le 200 maggiori multinazionali Usa, ha annunciato: basta con i profitti a ogni costo, prima vengono l’ambiente e i lavoratori. Come giudica queste due mosse in chiave di sostenibilità che arrivano dal mondo della finanza e delle imprese?

Sono segnali molto importanti. E per fortuna si aggiungono a tanti altri segnali in tal senso. La finanza responsabile e sostenibile è la componente più dinamica a livello mondiale e proprio l’Europa è all’avanguardia in questo campo. Anzi, quest’anno dovrebbero arrivare dalla Commissione Ue delle direttive che impatteranno sui comportamenti dei singoli consumatori e risparmiatori e sarebbe molto importante che l’Italia le recepisca il prima possibile. Perché qui si tratta di competitività: se non progettiamo i prodotti per essere riutilizzati, rischiamo aumenti di costi e quindi minore competitività. E’ un concetto che sta diventando sempre più chiaro per tante grandi imprese e per la finanza. Le stesse Banche centrali sono preoccupatissime dei costi che deriveranno dagli effetti dei cambiamenti climatici, che mettono a rischio la stessa stabilità finanziaria globale. E su questi fronti l’Italia non può rimanere indietro.

Oggi al Meeting interverrà all’incontro dal titolo “Al cuore della sostenibilità”. Un cuore, come abbiamo visto, che batte un po’ bradicardico. Come aiutarlo a ritrovare il ritmo giusto?

Bisogna cambiare il modello di funzionamento delle nostre economie e delle nostre società. Per questo noi insistiamo nel voler introdurre nella Costituzione italiana il principio dello sviluppo sostenibile, come già hanno fatto in Francia, in Norvegia, in Svizzera e in Belgio. Questo passo renderebbe incostituzionali leggi che invece oggi non sono considerate tali. Per questo c’è una proposta in Parlamento e c’è una raccolta di firme per una proposta di iniziativa popolare. Ma poi bisogna far sì che tutte le politiche siano orientate in questa direzione. Ecco perché insistiamo sugli strumenti di governance di cui abbiamo parlato in precedenza. Potrebbe essere un modo per allineare il battito della sostenibilità all’urgenza e consentirci di sfruttare le opportunità che le nuove politiche europee sembrano voler offrire.

(Marco Biscella)

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