Spes non confundit: la speranza più autentica, quella che “non delude”, è la speranza ricondotta al suo vertice ideale. Non un’attesa qualunque, ma, come ripetevano teologi e filosofi morali del passato (lo ribadisce san Tommaso d’Aquino nei suoi scritti, citato alla lettera da Dante in Paradiso, 25), “l’attender certo” della massima soddisfazione, la beatitudo destinata a compiersi nella “gloria futura” della perfetta comunione con Dio.
Era questa la meta ultima, riconosciuta promessa affidabile perché fondata sulla certezza di un Tu che si fa incontro alla povertà dell’essere umano e, abbracciandolo così come è, dentro il limite che lo costituisce, gli restituisce la possibilità di una vita chiamata a “risorgere”. Ѐ il dono di una Grazia condivisa, e insieme il frutto dei meriti acquisiti accettando di corrispondervi con la nostra adesione.
Dall’avvenimento di una salvezza già innestata una volta per sempre nella storia del mondo scaturisce la vera fiducia, radicata sul solido terreno della ragionevolezza sperimentabile: l’opposto di una fiducia solo sentimentale, dell’ingenuo ottimismo evasivo incapace di misurarsi con tutte le desolanti contraddizioni che possono avvolgere il presente quando si fa cupo e doloroso.
La speranza così concepita, la speranza cristiana, ha in sé qualcosa di irriducibile, che resiste alla forza corrosiva del male che dilaga: capovolge la tragedia di ogni tempo in un dramma con una luce intravista sullo sfondo, perché una via è stata tracciata, e attende solo di essere percorsa.
In questo senso, la tenacia paziente della speranza può essere paragonata alla metafora della roccia nel linguaggio dei salmi dell’antico Israele: sta in piedi perché si appoggia al robusto sostegno di una sicurezza che ci viene messa a disposizione, dilatando le magre risorse su cui siamo in grado di contare nella nostra autonomia: “Solo in Dio riposa l’anima mia… Lui solo è mia roccia e mia salvezza, mia difesa: non potrò vacillare. In Dio è la mia salvezza e la mia gloria…” (salmo 62).
Oppure nel salmo 71: “In te, Signore, mi sono rifugiato, mai sarò deluso… Sii tu la mia roccia, una dimora sempre accessibile… davvero mia rupe e mia fortezza tu sei! Sei tu, mio Signore, la mia speranza, la mia fiducia… Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno…”.
Nel Nuovo Testamento, il fondamento che giustifica l’abbandono fiducioso alla logica della speranza ha fatto propria la simbologia marittima dell’àncora. Il testo più esplicito che la introduce è la Lettera agli Ebrei (6, 18-20): “Noi, che abbiamo cercato rifugio in lui, abbiamo un forte incoraggiamento ad afferrarci saldamente alla speranza che ci è proposta. In essa infatti abbiamo come un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato come precursore per noi”.
Cristo con il suo sacrificio e la sua risurrezione è entrato nel cuore più profondo del mistero divino, e lì ha gettato l’àncora alla quale si può aggrappare chi non accetta le insidie di una navigazione senza punti di orientamento né sbocchi a cui approdare.
Il brano della Lettera agli Ebrei è diventato il contrassegno pressoché obbligato di ogni discorso che si può fare oggi sulla virtù della speranza. Non a caso, è anche la citazione che sorregge il capitolo conclusivo della Bolla di indizione del Giubileo in corso di svolgimento, promulgata da papa Francesco il 9 maggio scorso.
Ma quel che è interessante notare è che il bisogno di restare legati alla forza indistruttibile della speranza ha saputo tradursi, lungo il dipanarsi della secolare vicenda cristiana, in una proliferazione suggestiva di immagini visive, tutte allo stesso modo incaricate di lasciar percepire ciò che implica l’apertura fiduciosa al destino verso cui conduce la compagnia di Dio calata dentro l’orizzonte dell’esistenza umana.
Nell’iconografia religiosa del tardo Medioevo non compaiono in primo piano né il fondamento granitico della roccia, né il tema parallelo dell’ancoraggio necessario per non sprofondare.
Vengono messe in scena figure femminili che semplicemente fissano lo sguardo verso l’alto, verso il cielo di Dio, da cui attendono il soccorso di una benevolenza piena di amorevole misericordia, tesa a colmare il loro desiderio di felicità totale, evocato dal trono principesco su cui siedono, o dalla corona che aspirano a raggiungere con le braccia protese in avanti: così vediamo rappresentata la nostra virtù nella trecentesca Arca di sant’Agostino in San Pietro in Ciel d’oro a Pavia, oppure negli affreschi di Giotto nella cappella degli Scrovegni.
In questa scia, si comprende come mai la marca tipografica incisa sui libri stampati a Venezia a metà Cinquecento sotto “l’insegna della Speranza” sia, di nuovo, quella di una donna che volge il viso offrendolo ai raggi del sole che la sovrasta, mentre porta la mano destra all’altezza del proprio cuore.
Ѐ qui chiamato in causa l’affetto più intimo della figura adottata come emblema, con l’invito a distogliersi dall’illusoria sovrabbondanza dei beni materiali che l’assediano da ogni lato, sottolineato dalle scritte di contorno disposte ai bordi dell’illustrazione: “In questa vanità, ch’ognun desia,/ non poner tua speranza, ma sicuro / scorg’il camin ch’al sommo ben t’invia”.
Arrivati a fine Cinquecento, l’Iconologia di Cesare Ripa, ricchissimo prontuario enciclopedico al servizio della comunicazione culturale di indirizzo umanistico, destinato a conoscere uno straordinario successo di pubblico prolungato nel tempo, inserisce ulteriori varianti nella più classica tipologia delle rappresentazioni delle virtù. Viene ribadita l’associazione con il colore dell’abito diventato ormai nell’immaginario la nota distintiva della speranza: cioè il verde della vegetazione che sempre rinasce.
Si suggerisce di porre sulla testa della figura che incarna l’idea della virtù una ghirlanda di fiori, oppure un giglio in una mano, o un “arboscello fiorito”, del grano, “un’erba di tre foglie”: tutti segni allusivi all’attesa di un sicuro esito desiderato. In particolare si consacra la novità di far tenere in braccio alla donna un amorino alato, stretto al seno per essere nutrito come un piccolo lattante.
Un tale rinvio alla dimensione affettiva dell’amore materno aveva il pregio di enfatizzare il nesso tra la speranza e lo slancio amoroso: la speranza è “vero fomento d’amore”, annota l’Iconologia, e dove si eclissa la speranza, ugualmente “amore in un subito sparisce”. Si desidera per arrivare a conquistare un bene amato, per arrivare a essere ciò che non si è o non si ha ancora.
Ma senza la speranza l’amore perde la tensione del suo vigore. Si ripiega su di sé e “non può venir a fine de’ desiderii”. L’amore per il bene che ci manca dà ali alla speranza, si potrebbe dire. Ci trascina per condurci fino al traguardo perseguito. Ѐ così che la speranza ci salva.
L’ardore dell’amore inteso come energia che spinge fuori di sé alla ricerca del pieno compimento rimase l’ingrediente più tipico delle immagini elaborate per dare concretezza riconoscibile alla natura della virtù deputata a sostenere le mosse di ogni possibile aspettativa. L’amorino portato al seno della madre feconda continuò a essere riproposto come attributo essenziale nei dizionari di icone ristampati a ritmo continuo almeno fino al Settecento.
Solo a metà del secolo dei Lumi la simbologia più diffusa della speranza cominciò a includere l’antico motivo biblico dell’àncora che impedisce il naufragio. I simboli cambiavano, ma si tornava semplicemente a recuperare qualcosa di antico attingendo a un patrimonio sempre riciclabile dandogli nuovi accenti, riflesso di una sensibilità avviata a trasformarsi radicalmente.
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