Il Giubileo cristiano è una questione di tempo, ci interroga e ci istruisce su come viviamo il tempo da cristiani. Il Giubileo ci ricorda la concezione del tempo che il cristianesimo condivide con la tradizione ebraica: è nel tempo, cioè nella storia che si manifesta l’agire di Dio a favore degli uomini. Dio non si rivela, non incontra l’uomo in luoghi particolari, in spazi sacri, ma nel tempo, cioè nello scorrere dell’esistenza con i suoi accadimenti, i suoi incontri, il suo dipanarsi a volte coerente, forse più spesso caotico e confuso. A Davide che vuole costruire un tempio al Signore, il profeta Natan ricorda che è nel tempo, non nello spazio che si può riconoscere l’agire di Dio e la sua salvezza (cf 2Sam 7). Più che spazi sacri, per noi esistono tempi sacri, o meglio tempi santi, perché abitati da Dio.
In realtà, noi crediamo che esista un unico tempo santo, che è il nostro, il tempo corrente, quello che va dal Natale di Gesù al giorno della sua venuta nella gloria. Nell’esordio della sua predicazione nella sinagoga di Nazaret, Gesù, facendo propria e dichiarando realizzata in sé la profezia di Isaia, afferma di essere venuto a portare il lieto annuncio ai poveri e la liberazione ai prigionieri e a proclamare “l’anno di grazia del Signore” (Lc 4, 16-19). Questo “anno di grazia” è ancora in corso, anzi è il Giubileo eterno, definitivo, che è già cominciato. I Giubilei a cadenza venticinquennale in fondo non ne sono che un richiamo, una memoria per la Chiesa.
La stessa istituzione del Giubileo da parte di Bonifacio VIII nel 1300 fu determinata anche dalla visione cristiana del tempo. Verso la fine del XIII secolo, circolavano ancora le idee di Gioacchino da Fiore, morto quasi un secolo prima, secondo le quali era imminente il passaggio dall’età del Figlio all’età dello Spirito Santo, l’epoca ultima del mondo; anzi nel 1297 un seguace della dottrina di Gioacchino aveva annunciato che al compiersi del secolo si sarebbe appunto inaugurata l’era dello Spirito Santo. La proclamazione del Giubileo, quindi, nell’anno centenario della nascita di Cristo, mentre da una parte ricordava che gli “ultimi tempi” erano già cominciati con la Pasqua di Gesù, insieme riaffermava che Cristo stesso è insuperabile, i cristiani e l’intera umanità non devono attendere nulla di nuovo oltre Gesù, se non la manifestazione gloriosa del Regno di Dio che è già presente nella storia; e lo Spirito Santo stesso non va oltre Cristo, ma fa memoria di lui.
Anche il tema della speranza, che caratterizza il Giubileo del 2025, è evidentemente legato al tempo e riguarda il modo con cui gli uomini vivono il tempo. Papa Francesco, nella Bolla di indizione dell’Anno Santo, Spes non confundit, definisce la speranza come “desiderio e attesa del bene”: essa costituisce un messaggio positivo per le tante “persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo”. Dunque, la speranza cristiana è un modo per affrontare lo scorrere del tempo, un modo di guardare al futuro che contrasta lo sguardo perlopiù annebbiato che è proprio degli uomini e delle donne del nostro tempo. In questo senso, vale la pena sottolineare la traduzione latina, dalla versione della Vulgata di san Girolamo, del passo di Rm 5,5 che il Papa ha scelto come titolo della Bolla di indizione del Giubileo. La traduzione italiana corrente suona: “la speranza non delude”, alludendo ad una attesa che non viene smentita e quindi non provoca turbamento. La traduzione latina invece, spes non confundit, dice in fondo la stessa cosa, cioè che chi spera non resta turbato, non rimane nell’imbarazzo, ma il motivo è che la speranza “non confonde”, cioè consente di “discernere”. Confundere infatti significa letteralmente “mescolare”, “fondere insieme” cose diverse, che appunto è il contrario del discernere, inteso come “distinguere”, dare ad ogni cosa il proprio valore. In sintesi, la speranza non delude, non provoca turbamento, perché fa vedere chiaro, aiuta a comprendere qual è il bene che dobbiamo aspettare e che dobbiamo scegliere.
Il Papa parla anche di un’altra virtù, “strettamente imparentata con la speranza”: la pazienza. Nel nostro mondo essa è stata messa in fuga dalla fretta, dall’insofferenza, dal nervosismo; nel mondo digitale, il mondo del “qui e ora”, la pazienza non è di casa. Ecco che ritorna il tema del tempo: la pazienza, sorella della speranza, è la virtù di chi sa durare, di chi sa attendere, di chi sa perseverare con fiducia nella promessa di Dio, il quale per primo è paziente con noi e con i nostri peccati. La pazienza è figlia della speranza e insieme sostiene la speranza.
La Spes non confundit, al n. 25, si conclude con una bella immagine tratta dalla Lettera agli Ebrei (6, 18-20): la speranza che ci è offerta da Dio in Gesù è come un’“àncora sicura e salda per la nostra vita”. La speranza dà stabilità e sicurezza, finché Egli venga. Nello scorrere del tempo, non di un salvagente abbiamo bisogno, per stare semplicemente a galla, per galleggiare passivamente, ma di un’àncora, per vivere il tempo con un radicamento sicuro.
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