Caro direttore,
una poesia di Leopardi ci porta al centro della tragedia di Giulia che abbiamo vissuto in questi giorni, ma che, in realtà, stiamo vivendo ormai da tempo. La poesia si intitola Aspasia, Giacomo la scrisse a Napoli nel 1834. Fa parte di un ciclo di componimenti (ciclo di Aspasia, appunto) che il grande poeta dedicò a Fanny Targioni Tozzetti, la nobildonna bella e colta di cui, non corrisposto, si innamorò durante il suo soggiorno fiorentino (dal 1830 al ’32).
Leopardi ripercorre la strada del suo amore per Fanny: non appena la vide, “apparve novo ciel, nova terra, e quasi un raggio divino al pensier mio”. Quella immagine di bellezza lo trafigge e lo accompagnerà in ogni suo gesto e in ogni suo incontro: riappare “in altri volti” in cui egli si imbatte, si ridesta quando resta solo, quando guarda la luminosità delle stelle o quando sente il profumo dei fiori, in primavera. “Raggio divino al mio pensiero apparve, donna, la tua beltà”. La bellezza della donna – come a volte accade ascoltando la musica – sembra rivelare all’uomo il mistero di ignorati paradisi, della felicità e bellezza infinite. L’uomo è tutto preso da questa “idea”. La bellezza particolare di Fanny – di quella singola donna – desta in lui un brivido, una percezione, un sentimento di quella che è la bellezza universale e totale. La felicità assoluta, per un attimo, sembra bussare al cuore dell’uomo attraverso quegli occhi, quel volto, quel particolare sguardo. Nel momento dell’innamoramento, pare quasi che ognuno di noi tocchi il cielo con un dito. Quell’infinito risvegliato in noi è tutto “al volto ai costumi alla favella” simile alla donna che “il rapito amante vagheggiare ed amar confuso estima”.
Perché Leopardi definisce “confuso” l’uomo innamorato? Perché egli purtroppo vive un grande inganno, confonde del tutto gli elementi in gioco. Scambia la bellezza di questa donna particolare con la Bellezza infinita; confonde la felicità temporanea che può dargli la ragazza con la Felicità assoluta da sempre cercata e desiderata. “Or questa egli non già, ma quella, ancora nei corporali amplessi inchina ed ama”. In realtà il cuore dell’uomo, infinito ed immenso, non può essere soddisfatto dall’affetto, pur tenero e dolce, ma sempre limitato, della donna incontrata (“questa”); egli cerca soltanto l’amore infinito (“quella” idea di Bellezza eterna che per un attimo ha come presentito nella presenza fisica della sua ragazza).
“Alfin l’errore e gli scambiati oggetti conoscendo, s’adira; e spesso incolpa la donna a torto”. Rendendosi conto che non può pretendere dalla donna l’amore assoluto, la considera colpevole, se la prende con lei, diventa violento perché pretende un orizzonte assoluto da un essere che è limitato e imperfetto come lui stesso lo è. “A quella eccelsa imago sorge di rado il femminile ingegno; e ciò che inspira ai generosi amanti la sua stessa beltà, donna non pensa, né comprender potria”. Aspasia non può contenere “lo smisurato amor, gli affanni intensi, gli indicibili moti” che ha destato nel poeta, così come il musicista non può donare il mondo infinito che fa presentire all’animo di chi lo ascolta.
Colpisce che proprio questo raccontano i conoscenti di Filippo: il tentativo di imporre alla ragazza di essere il suo “tutto”, lo scopo e il fine ultimo della sua esistenza; con il conseguente senso di asfissia e di rifiuto da parte di lei. Non è questo il fine dell’amore fra due giovani. Non è certamente di essere l’uno il destino e l’orizzonte dell’altro. Come potrebbe una persona pretendere di considerarsi (o essere considerata) la felicità totale dell’altra? Sarebbe una menzogna. Scriveva Pavese nel racconto Fine d’agosto: “Noi giochiamo qualche volta a rialzare fra noi il mistero, a intuire che ciascuno è per l’altro un estraneo, e così sfuggire alla monotonia. Ma ormai io non potevo più perdonarle di essere una donna, una che trasforma il sapore remoto del vento in sapore di carne”.
Come non ricordare anche i versi di De André? “Ricordi sbocciavan le viole/ con le nostre parole/ ‘Non ci lasceremo mai, mai e poi mai’./ Vorrei dirti ora le stesse cose/ ma come fan presto, amore, ad appassire le rose/ così per noi. L’amore che strappa i capelli è perduto ormai,/ non resta che qualche svogliata carezza/ e un po’ di tenerezza”. Ma allora il sogno destato nell’incontro con la donna resta solo illusione? L’amore assoluto può essere solo una immagine violenta, una gabbia dorata, in cui si costringe l’altro o l’altra a porsi come unico oggetto ed esecutore dei miei desideri?
Scriveva anni fa don Luigi Giussani: “Se il limite delle cose, il limite della donna non definisce quello che l’uomo è suscitato ad essere dalla sua presenza” allora è necessario un passo oltre la negazione. Occorre introdurre “una parola estremamente importante, la parola suprema per la ragione dell’uomo, che è la parola segno. Nell’esperienza testimoniata in Aspasia e in altri luoghi, la donna è segno di qualcosa d’altro”, un Destino più grande e infinito dell’uomo stesso di cui egli porta l’impronta nel suo cuore. Il fascino della ragazza mi porta verso la grande bellezza di Cosa (o Chi) l’ha creata e voluta così, me l’ha fatta incontrare, la mantiene viva. Così lo stesso Giussani, tornando a casa in bicicletta, incrociò una sera due fidanzatini, suoi studenti, abbracciati sotto il cielo limpido. Si fermò un attimo e disse loro: “Scusatemi un momento: ma quel che state facendo che c’entra con le stelle?”.
Giussani la definì l’idea più geniale della sua vita. Cosa c’è di più bello nell’amore che camminare non l’uno verso l’altro, ma insieme aperti al tutto, al mondo, al cielo? Cosa c’è di più desiderabile di due amanti che non si chiudono in mura imprigionanti fatte di ricatti e pretese, ma che cercano l’uno il Destino dell’altro? Cosa c’è di più vero che sentir dire in una coppia: “Se questa scelta fa la tua felicità, segui la tua strada”, piuttosto che: “Se farai questa scelta, ti lascerò e non ci vedremo mai più”? Ma per avere intorno, addosso, quest’aria libera occorre il senso del Destino, il senso di un orizzonte grande e infinito, il senso vero dell’amore.
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