Qualcuno ricorda il nome della 76esima donna italiana vittima quest’anno della violenza maschile o anche solo quella del caso procedente a Giulia Cecchettin? Difficile, perché appena questi casi escono dall’attenzione dei media non fanno più notizia, eppure sono tutte vittime incolpevoli della violenza maschile. Assurdo che siano i media a decidere se il caso debba spegnersi o assurgere a simbolo.
Eppure solo se si avrà il coraggio di inquadrare il fenomeno, non solamente in un contesto mediatico ma nelle sue vere problematiche, il sacrificio di Giulia servirà a qualcosa, soprattutto a evitare il prossimo omicidio. Per montare un caso c’è spesso bisogno di elementi morbosi, eccitanti. Serve una donna giovane e bella, la “suspence” di una scomparsa, un familiare che la butta in politica (il caso Cucchi ha fatto scuola) e poi il resto – purtroppo – vien da sé. Sabato sera i Tg nazionali dedicavano all’omicidio e alle manifestazioni collegate metà del palinsesto e in questi giorni hanno detto la loro parenti, amiche e vicine di casa oltre ad una turba di politici, psicanalisti, sociologi, commentatori, giuristi: tutti a pontificare con nessuno che avesse il coraggio di ammettere che statisticamente i femminicidi sono molto meno in Italia che nel resto d’Europa. Nascono le mode: una settimana fa in Italia nessuno usava il termine “patriarcato” salvo qualche commentatore biblico, ora è sulla bocca di tutti, così come decine di milioni di italiani di sesso maschile sono implicitamente accusati di violenza o di chiudere gli occhi davanti alla realtà.
È totalmente assurdo affrontare questo tragico fenomeno senza inserirlo nel contesto umano, statistico, sociale, legislativo, familiare di una società ben diversa da come veniva descritta durante le manifestazioni femministe dei giorni scorsi. Chiacchiere a fiumi, ma la cosa più importante – e speriamo questo sia stato recepito soprattutto dalle donne – non sono tanto le manifestazioni, i cartelli o le scarpe rosse, ma piuttosto il prendere coscienza che ciascuna di loro deve avere il coraggio di denunciare il fidanzato violento o il marito tiranno, le discriminazioni o la violenza domestica. Devono imparare a farlo senza nascondersi e senza paura e devono essere aiutate da tutti a scrollarsi i timori di questo cammino difficile, anche da quei maschi che – nella sostanziale totalità – non accettano i metodi violenti e di conseguenza neppure vogliono quindi essere catalogati come tali.
La stragrande maggioranza degli uomini non è composta né da satiri né da “cattivi” ma – anzi – da milioni di persone che si sacrificano ciascuno per la “sua” donna, esattamente come fa l’altro sesso nei loro confronti. Non è la differenza tra i sessi che genera violenza, ma singoli personaggi violenti che vanno fermati e condannati. Le statistiche europee sottolineano anche come non sia meno violento un mondo “transgender” rispetto alla famiglia naturale. Eppure bastava ascoltare le interviste alle manifestazioni di sabato per capire, invece, l’implicito messaggio, con la politica che ci si è buttata a capofitto, soprattutto per voler “dimostrare” di essere più sensibile sul tema rispetto all’avversario.
Non credo che a scuola possano o riescano a spiegarti bene lo schianto che avviene in un cuore abbandonato (soprattutto se è la prima volta; in Italia ci sono anche circa 4mila suicidi l’anno tra i quali moltissimi ragazzi, ragazze e giovanissimi). Forse – oltre che andare in piazza per i femminicidi – servirebbe dedicare più tempo, risorse, psicologi e affetto per aiutare chi sta male e si sente abbandonato, chi non accetta di essere lasciato. Se a volte l’abbandono diventa violento, nella stragrande maggioranza è soprattutto tragico per chi lo prova, che cade in profonda depressione pur senza minimamente sognarsi di colpire in qualche modo chi l’ha lasciato (o lasciata). Parlare, discutere, capire: il dialogo che servirebbe tra le persone (e le generazioni) sembra un’utopia, perché il dialogo quasi non c’è più: questa società l’ha abolito per renderlo “virtuale”, e anche i raptus di violenza sono spesso condivisi sui “social” o inseguendo i “testimonial” che affrontano queste tematiche soprattutto per i loro personali interessi.
Se la gran parte dei femminicidi è legata a relazioni amorose, qualcuno ha il coraggio di chiedersi come si siano evolute negli ultimi decenni? Perché una volta forse certi discorsi erano tabù ma oggi, al contrario, sono stati banalizzati, rendendoli superficiali e assurdi. Dietro gli omicidi c’è spesso la morbosità, l’ignoranza, l’impreparazione psicologica a vivere relazioni complesse, anche perché pochi giovani hanno avuto il privilegio di avere genitori attenti, disponibili, aperti. Ancora una volta va in crisi il modello di famiglia e di questa società costruita a tavolino, cullata nell’illusione di riuscire, da sola, a creare buoni cittadini progressisti, ma soprattutto buoni clienti del futile e del superfluo.
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