Sta rimbalzando sui social la tesi che Filippo Turetta sia uno “normale”, uno come noi, o uno come tanti maschi. Ho l’idea che il primo a non essere d’accordo possa essere lo stesso Filippo, che se – come pare – ha premeditato il femminicidio di Giulia, ha pure fatto il possibile per farsi arrestare. Finita la benzina? Non scherziamo. Le parole – e quindi i pensieri – di Filippo ancora non li conosciamo, ma qualcosa dei suoi atti, sì. Tra questi brillano gli “atti mancati”, che Freud assimila ai lapsus. Rimanere senza benzina e senza un euro in autostrada in Germania, mentre si scappa dalla polizia, è un clamoroso atto mancato. Per esser chiaro, e non indurre in confusione, aggiungo che un lapsus (atto di pensiero) non indica un problema: indica la soluzione. Va spiegato? Davvero? Non ci credo.



Comunque, vale quanto afferma Aristotele nella Retorica: se vuoi capire il senso di un atto, in quel caso della commedia o della tragedia, vai all’atto successivo. Nel caso di Filippo l’atto successivo è l’arresto. Stop, quindi. È difficile però mettere il pensiero agli arresti, perché si pensa anche in carcere. Per fortuna o sfortuna dipenderà da ciò che si sarà – o non si sarà – riusciti a pensare.



Sui muri di una università di Milano è comparso in questi giorni un piccolo murales, che ho notato e fotografato. Certo nulla a che fare con un’opera di Banksy, però esplicito e a suo modo competente e confortante, specie se pensiamo che il disegno è stato fatto da uno studente o una studentessa coetanei di Giulia e Filippo. Disegnato in bianco su un fondo scuro il murales rappresenta la testa di un uomo con gli occhiali, frangia sulla fronte, qualche pelo di barba, lì vicino un cuore, due nomi sovrascritti illeggibili e il muso stilizzato di una iena che ride. Poi, in rosso, del sangue che cola dal cuore (in precedenza innamorato, possiamo legittimamente supporre). In basso il titolo che l’anonimo autore ha dato all’opera: “hai perso la testa”. Così, semplicemente, senza punti esclamativi o altro. Frase semplice, a tutti nota, ma non per questo compresa, di certo non compresa da Filippo. Come c’è una distinzione tra guardare e vedere, così c’è la distinzione tra sapere e capire, verbo che viene da capere (prendere), ovvero farsene qualcosa di quel che si sa, o si presume di sapere. Cosa indica la frase “hai perso la testa”? Di cosa si tratta?



In primo luogo, si tratta di una imputazione, che riconduce un atto a un soggetto. Chi ha perso la testa? Tu hai perso la testa. Io ho perso la testa. Tizio e Caio hanno perso la testa. Filippo ha perso la testa. Per deficit di cultura giuridica siamo abituati a pensare che imputazione e sanzione vengano dall’esterno, da fuori di sé. Ma la prima imputazione viene dal proprio foro interno. Ora nulla ci vieta di pensare, ed è ciò che si può auspicare che nel tempo avvenga nella mente di Filippo, a un dialogo interiore che permetta a Filippo di auto-imputarsi, non solo del femminicidio di Giulia, ma degli atti di pensiero, dei sentimenti, dei turbamenti e delle paure e delle gelosie che, non ascoltati, lo hanno inesorabilmente propiziato e preparato.

Perdere la testa non è un reato ai sensi del Codice penale, ma lo favorisce. Pensar male, censurare, banalizzare, coltivare sentimenti di possesso esclusivo, negare la propria gelosia, normalizzare le condotte controllanti: in sintesi perdere la testa fino al furore, è un caso di favoreggiamento del reato (a sua volta reato). Imputarsi o non imputarsi cambia tutto, anche in un caso di femminicidio.

Non è per prendere le distanze dalla cronaca che chiamo in causa un’opera di Frida Kahlo del 1935, Unos cuanto piquettitos (solo qualche punzecchiatura), che ho già commentato su queste pagine tempo fa, al contrario è per entraci, con un giudizio, senza perdersi.

Il quadro della Kahlo rappresenta l’efferato femminicidio di una donna trucidata per gelosia, con decine di coltellate, dal marito. Il caso aveva fatto scalpore non solo per la violenza, ma perché il marito aveva irriso i capi d’accusa davanti al giudice, e senza alcun ravvedimento aveva cercato di svilire la donna anche durante il corso del dibattimento processuale. La sua scandalosa frase, che i giornali riportarono, è quella che Frida Kahlo utilizza come titolo del quadro. Nel quadro non c’è nessuno che perde la testa, piuttosto l’opera rimanda a qualcuno che ostenta, che congela la sua angoscia e il suo furore utilizzando un cliché maschile, o patriarcale se si vuole insistere su questo. Ma qui vale la pena (e la penna) di tornarci un’altra volta, con più calma. Devo all’amica Loredana Colombo, insegnante per mestiere e per passione, avermi suggerito l’associazione con l’Orlando furioso (1516), che Ariosto scrive come “sequel” dell’Orlando innamorato del Boiardo. Orlando perde il senno (la testa) per gelosia di Angelica, che gli preferisce Medoro. Il senno di Orlando va alle stelle, o meglio finisce sulla luna, fino a che Astolfo a cavallo di Ippogrifo non lo riporta ad Orlando, dandogli nuova vita, anche sentimentale e affettiva. Si parla molto in questi casi di educazione e di insegnamento per modificare retaggi presunti ancestrali. Ma ammesso e non concesso che l’insegnamento raggiunga certe profondità della psiche (o mente, o intelligenza, o pensiero) individuale, nessuno capisce (apprende) se non ciò che appetisce o desidera conquistare stabilmente per sé (e propri altri per conseguenza). Ho il sospetto che in questi casi lasci più il segno una buona serie tv che tante prediche civiche, ma d’altra parte cos’era ai tempi l’Orlando furioso se non una serie tv ante litteram? Che ora si può avere la fortuna di seguire dai banchi di scuola, senza neppure beccarsi una nota. Serve giusto un’insegnante che ci abbia pensato.

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