Sono stato fortemente impressionato, come tutti, dai fatti riguardanti la morte violenta di Giulia Cecchettin e l’arresto con l’accusa di omicidio di Filippo Turetta, ma anche dalle tante cose che su questa tragedia si stanno dicendo.

In mezzo a tante parole – alcune più condivisibili, altre meno – mi sembra sfuggire completamente la questione di fondo sollevata da un dramma di questa portata. È nientemeno che la questione destino e della sua forza, cioè il fatto che gli affetti umani non sono solo fenomeni eccitanti da sperimentare e con cui giocare, ma qualcosa di molto più profondo e radicato in noi; proprio là dove regna ciò che incommensurabile con le nostre idee e i nostri progetti, e davanti al quale possiamo solo mendicare. Potremmo anche dire di avere a che fare con il “sacro” nelle due persone di Giulia e Filippo – come anche delle nostre.



Lo spiego raccontando due esperienze alle quali ripenso in questi giorni mentre rifletto sulla furia incontrollata che ha messo fine alla vita di Giulia e ha innescato l’autodistruzione di Filippo. Anni fa stavo visitando in ospedale, come facevo tutti giorni, un giovane più o meno trentenne che stava morendo di tumore. Era presente, come accadeva spesso, anche sua moglie, madre dei loro due bambini. Ad un certo momento, lei, spiazzata dalle circostanze che contraddicevano in modo così violento ogni sua aspettativa, desiderio e progetto di vita, mi gridò: “Padre, guardi con quale calma mio marito sta parlando con lei! Non si rende conto del male che mi sta facendo, ma gli farò vedere io! Adesso vado a casa e ammazzo i nostri figli, così si accorgerà di come mi sta facendo soffrire senza neanche scusarsi!”.



Io e il marito sofferente rimanemmo attoniti, ed avemmo entrambi la sensazione che lei facesse sul serio. Con il cuore oppresso diedi l’allarme, facendo arrivare il TSO, che si prese in carico la moglie. Ebbi poi modo di accompagnarla insieme ai bambini nella morte, nel funerale e durante il lutto per il defunto marito. Alla fine quella madre ha fatto pace con Dio e con il destino che Lui aveva preparato per lei.

L’altra esperienza me la raccontò un amico. Lui stesso era stato fidanzato per alcuni anni con una ragazza di cui era molto innamorato. Avvicinandosi alla laurea, lui insisteva perché lei prendesse una decisione definitiva sul loro rapporto, ma lei preferì mollare e fare altre esperienze affettive. Lui, affranto, cercò di accettare questa scelta cercando e trovando lavoro lontano. Un paio di anni dopo, durante una visita a casa, lei lo cercò chiedendo di vederlo. Lui acconsentì, ma solo a condizione di riparlare del loro matrimonio, e lei si disse d’accordo. Dopo due-tre giorni che si erano rivisti il giovane si rese conto che lei voleva stare con lui solo perché si sentiva sola e voleva “giocare”. Lui la lasciò, se ne tornò subito da dov’era venuto, e passarono settimane – mi raccontò – prima che potesse riuscire a parlare con un’altra persona, e anni prima di poter soltanto pensare di prendere sul serio un altro rapporto affettivo. “Non avevo la minima idea di quanto profonda potesse essere una ferita così, né di quale istinto violento potesse suscitare in me” mi spiegò. “Se non avessi trovato Dio, non so che fine avrei fatto”.



Parlare degli affetti umani senza il Destino, escludendo il rapporto con l’Eterno, lascia fuori la sorgente del loro potere e della loro bellezza, e scatena il loro pericolo. Gli affetti hanno la loro radice in qualcosa che ci supera interamente. Senza un rapporto col destino, col sacro, con Dio, non sappiamo trattarli con sufficiente serietà, dignità e considerazione; ma neppure sappiamo come gestire la violenza che può insorgere dentro di noi quando veniamo contraddetti negli affetti, se non abbiamo imparato a supplicare il Destino di avere misericordia di noi.

Sono stato sempre colpito dal modo in cui, nei libri, sublimi, di Jane Austen i protagonisti trattano gli affetti. Lo fanno con umorismo, ma soprattutto con una serietà che esprime tutta la dignità alla quale siamo chiamati nei rapporti affettivi e il male che un trattamento sconsiderato è in grado di procurare. Insomma, gli affetti sono una questione di vita e di morte. Nel film Ragione e Sentimento diretto da Ang Lee (1995), la sorella maggiore, Elinor, cerca gentilmente di mettere in guardia la sua sorellina, che sta esponendosi senza riserve ad un uomo attraente conosciuto appena poche ore prima: “Il signor Willoughby non avrà nessun dubbio del tuo entusiasmo per lui”, dice Elinor. “Perché dovrebbe dubitare delle mie considerazioni?” replica Marianne seccata. Non volendo privarsi della gioia di esprimere il suo entusiasmo senza limiti, Marianne si lega a lui completamente. Quando Willoughby abbandona Marianne, lei è distrutta e non sa come uscirne. La sua reazione, insomma, è violenta. Elinor cerca di aiutare la sorella a non dimenticare il sacro che è in lei e nell’altro, la invita ad aspettare che il destino “parli”, a vivere con più dignità. L’umano sta in questo.

La vicenda della povera Giulia e dell’uomo che l’ha uccisa sembra incomprensibile, ma diventa un po’ meno indecifrabile se mettiamo in conto le profondità insondabili del rapporto tra il nostro cuore e il suo destino, e le reazioni distruttive che ne possono risultare quando non siamo aiutati a riconoscere, accogliere e affidare quelle dimensioni di noi stessi così “smisurate” da toccare perfino l’infinito. Un’educazione che trascuri queste dimensioni mette in condizione di non saper trattare in modo vero l’umano dell’altro e neppure l’umano che c’è in noi.

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