“Un coniglio bagnato”. È sconfinata, la fantasia degli avvocati. Attinge dal pozzo senza fondo dell’immaginazione collettiva e, con sottile e consumata professionalità, la porge ai giudici del tribunale con la delicatezza di chi sa che solo contrapponendo grazia a disgrazia può sperare di muoverli a miti sentenze. “È un coniglio bagnato, si può dire?” ha dichiarato Giovanni Caruso, legale di Filippo Turetta, entrando in Corte d’Assise a Venezia dove è in corso il processo all’omicida di Giulia Cecchettin. Aggiungendo che il suo assistito “depositerà uno scritto di circa 40 pagine” con “i suoi ricordi”, chissà se anche questa volta – com’è successo per sua stessa ammissione – punteggiati delle bugie che, nonostante l’evidenza dei fatti e l’arresto, pronunciò al primo interrogatorio di fronte al pubblico ministero.
È probabile che per stenderle voglia sfogliare – se glielo sarà permesso – il diario che tenne a partire dal 7 novembre di un anno fa, quattro giorni prima di uccidere brutalmente la sua ex-fidanzata. Pagine dell’orrore nelle quali chissà se il giovane assassino riuscirà ancora a riconoscersi, a quasi dodici mesi trascorsi da allora, oppure se ne scriverà come “di un altro”. Lo farebbero supporre certe sue parole pronunciate in aula: “L’unica cosa a cui penso è espiare la mia colpa, ridicolo chiedere scusa: darei solo ulteriore dolore”.
Contrariamente a tante messe in scena, troppi silenzi, incresciosi schemi difensivi cui siamo costretti ad assistere nel mare di dibattimenti di cui è infarcito il nostro sistema giudiziario, almeno questo atto di sincerità – se tale è davvero – dobbiamo riconoscere a Filippo Turetta: l’ammissione del senso di colpa. Fosse autentica, basterebbe a caricarlo della croce per il resto dei suoi giorni. Per questo ci è suonata invece falsa, smaccatamente progettata per ottenere una sorta di “effetto buonismo”, l’immagine del coniglio bagnato gettata alla stampa: no, caro avvocato, quelle parole non le poteva, non le doveva proprio dire. Dovere di un sistema giudiziario democratico è non lasciare solo l’imputato, ancor più se accusato – e, se non crolla il mondo, alla fine condannato anche a fronte dell’ammissione di colpa aggravata dalla premeditazione – di pesanti delitti. Aiutarlo a ritrovare il silenzio che, secondo la Regola di San Benedetto, ha il significato di “abitare con se stessi”, sapendo cioè convivere anche coi propri limiti. Ma per questo occorre tempo, tanto tempo, anni di silenzio senza gli sconti che hanno sempre il sapore acre del buonismo – la peggior malattia della nostra epoca lassista –, irriguardoso dell’altrui dolore (pensiamo al padre e alla sorella di Giulia) marchiato dal “fine pena mai”, lacrime senza limiti attraverso cui cercare di purificarsi. E pazienza se per umana mancanza o, Dio non voglia, per senso di vendetta, non arriverà il perdono. Questo, davanti al dolore innocente, occorre guadagnarselo.
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