È accaduto tante volte, temo accadrà ancora con la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne di sabato 25. La violenza – di qualsiasi tipo, di genere e non, contro adulti e contro bambini – scatena risentimento, rabbia, vendetta e, in definitiva, altra violenza. E i buoni propositi rimangono tali fino alla prossima occasione. Reazioni “di pancia” sulla guerra in Ucraina, sul conflitto in Medio Oriente e, ultimo in ordine di tempo, nel Veneto – un tempo cattolico fino al midollo – di Giulia Cecchettin e Filippo Turetta. Le aule di scuole e università s i svuotano per qualche ora e si riempiono le strade e le piazze con i soliti slogan che, cambiata qualche parola, vanno bene per tutte le stagioni.
Non che manifestare pubblicamente la propria indignazione sia di per sé una cattiva azione, anzi: in democrazia è una delle prese di posizione più utili e normali. Quello che normale non dovrebbe essere, invece, viene dall’incapacità di andare oltre quegli slogan, oltre i pugni picchiati sui banchi universitari “per far rumore”, oltre i minuti di silenzio, oltre le dichiarazioni istintive della gente comune e dei politici di turno.
Iniziamo da questi ultimi: la proposta lanciata da Elly Schlein di introdurre l’educazione all’affettività nelle scuole e quella del Governo per un corso di educazione alle relazioni ha trovato – pur con alcuni distinguo – un consenso trasversale ai partiti, così com’era accaduto qualche anno fa con l’ora settimanale di educazione civica o alla cittadinanza che dir si voglia.
Scrivemmo allora da queste colonne che, trascorso in fretta l’entusiasmo iniziale, la novità sarebbe stata un buco nell’acqua, ben sapendo che sarebbe servita soltanto a comprimere ulteriormente lo spazio orario e le energie didattiche dedicate alle materie curricolari, ormai sempre più emarginate a tutto vantaggio di qualsiasi “educazione”, dalla alimentare alla sessuale alla stradale. Così è stato e così accadrà anche questa volta, perché piazza e Palazzo sono lontani dai problemi della scuola così come lo sono quasi sempre da quelli del vivere quotidiano di chi deve far quadrare il pranzo con la cena. Ignorano o fingono di ignorare che l’educazione civica, che di per sé dovrebbe già includere una buona parte di quella all’affettività come rispetto verso l’altro, è di per sé compresa in tutte le discipline a partire da quelle umanistiche, perché non si vede a cos’altro debbano servire Dante o Leopardi, le guerre mondiali o le scoperte scientifiche se non per educare al vivere civile e alla conoscenza di sé.
Quest’ultima ci aiuta ad introdurre la riflessione sulle manifestazioni di piazza. In particolare, i ragazzi che abbiamo visto sfilare con cartelloni e megafoni anche in queste ore sono gli stessi che nella giornata in cui la povera Giulia veniva trovata uccisa (e Filippo, povero anch’egli ma in tutt’altro senso, finiva i suoi giorni di libertà fisica lungo un’autostrada tedesca, prigioniero di se stesso) si esaltavano in massa al concerto napoletano di Elodie. Applausi dopo il minuto di silenzio voluto dalla cantante romana, ma anche deliri adolescenziali quando ha cantato Anche stasera di Sfera Ebbasta. Non che questo testo si discosti dal trito cliché del cantautore fatto di parolacce, immagini violente e doppi o tripli sensi, ma cantare “sei soltanto mia, mai più di nessuno, odio chi altro ti ha avuta, per te vado in galera” e via così contrasta totalmente col quel minuto di silenzio, con gli striscioni antiviolenza, con gli appelli contro la violenza sulle donne, con lo stracciarsi le vesti per un presunto dominio patriarcale (c’è cascata, ahimè, anche la sorella di Giulia) che in verità è stato ben altra cosa rispetto al predominio maschilista di oggi.
Quel che sconcerta è appunto la faciloneria con cui si cantano allegramente frasi che contraddicono quelle gridate con rabbia in piazza, in una manifestazione di ignoranza o almeno di superficialità alla quale gli adulti non si sottraggono. Perché, stringi stringi, nessuno sembra voler rinunciare ad un malinteso senso di libertà assoluta da tutto e da tutti, in primo luogo dalla famiglia e dalla scuola, in crisi oggi come mai nella storia. Ma ammettere una relazione tra questa crisi e quella della società nel suo insieme sarebbe come ammettere di aver sbagliato e continuare a sbagliare tutto sul piano educativo.
Allora, piuttosto che mettersi in discussione davvero è molto meglio l’indignazione di un momento e credere che la “settimana dell’affettività” o di “educazione alle relazioni” possa risolvere il problema di una violenza che è sempre frutto della mancanza di cultura. Quella che scuola e famiglia hanno rinunciato da tempo a trasmettere.
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