Giurato numero 2, l’ultima fatica cinematografica di Clint Eastwood, non è un film solo sul tema della giustizia e su un caso emblematico. Certamente squarcia un velo sulla presunzione delle verità giudiziarie. Ma c’è di più. C’è di mezzo lo stesso sogno americano. Così come c’è molto di più rispetto al film archetipo di questo genere, che a molti è tornato subito alla mente: La parola ai giurati (12 angry men), il capolavoro di Sidney Lumet del 1957.
Questo gran “vecchio” californiano ha evidentemente deciso, da tempo, di non cessare di tormentarsi con domande radicali e quindi di non lasciare noi spettatori in pace. Lo aveva già fatto con Million Dollar Baby. È pur vero che c’è chi aveva voluto vederci, in questo capolavoro drammatico, una sorta di cedimento al mainstreaming, una certa deriva militante sui grandi temi etici, come il fine-vita. Era però difficile sottrarsi alla sensazione di un dramma umano fuori dagli schemi, carico di autentici dubbi, con il relativo sacrificio personale del protagonista – cioè Clint Eastwood – che sparisce dalla scena del mondo, con la croce della scelta compiuta.
Incombe in questi film il tema radicale, centrale anche in Giurato numero 2, del dramma della libertà e del dover scegliere. Anche il protagonista di Gran Torino, altro capolavoro cinematografico, fa la sua scelta e si sacrifica. Si è condannati a dover scegliere anche quando non lo si volesse, come nel caso di Frankie Dunn, l’allenatore di Million Dollar Baby. E la scelta non è quasi mai in bianco e nero, tra un bene e un male nitidamente scolpiti, tra buoni e cattivi, come capitava all’ispettore Callaghan molti film addietro, un’era prima. La libertà comporta la drammatica responsabilità di prendere posizione. Sulla vita e sulla morte. E ciò non è detto che pacifichi. Al contrario, semmai, può dannare l’anima.
Ognuno non potrà sottrarsi – questo sembra volerci dire Eastwood – dalla scelta drammatica che la vita gli imporrà prima o poi. Dovrà quindi, volente o nolente, mettere in campo ragioni, grandi o meschine che siano, così come alibi o ostinati preconcetti, come tocca ai giurati del film, ma soprattutto al protagonista e alla procuratrice di Giurato numero 2. Qual è la cosa giusta? E qual è il suo prezzo?
C’è un secondo decisivo tema, connesso indissolubilmente e inestricabilmente a quello della scelta obbligata: la coscienza personale. La battaglia non è solo nell’aula dei giurati o nel tribunale, esteriore. È nell’intimo, drammaticamente personale. La coscienza non dà pace al protagonista, qualunque motivazione metta in campo per tacitarsi – il figlio nascituro, la moglie -, così come non dà pace alla procuratrice in carriera. E capiamo dal finale mozzato del film, che lascia le platee ammutolite, che non darà più pace per il resto della vita, qualunque falso o parziale accomodamento potrà venir trovato. Un prezzo verrà pagato, qualche innocente in un modo o nell’altro sarà vittima.
La coscienza di cui ci narra il film sembra evocarci il mito delle antiche Erinni dei greci o delle Furie dei romani, che braccavano inesorabilmente, senza tregua, i colpevoli. Nel mondo di Clint, c’è dunque libertà e coscienza, ma non sembra esserci ricomposizione, giustizia, lieto fine. Anche l’ingiustamente condannato dalle scelte altrui, un criminale recidivo peraltro, si sente dannato e colpevole perché ha comunque operato una scelta che è equivalsa di fatto alla condanna della sua ragazza, anche se lui non l’ha uccisa.
Viceversa, nel celebrato film di Lumet, alla fin fine il “sistema” funziona. Il sogno americano regge. I giurati, con le loro vicende personali, le rispettive ferite e livori, stavano per condannare superficialmente un innocente, ma un singolo giurato, ostinato nella ricerca della verità o del ragionevole dubbio, alla fine ribalta l’ovvio, assicura giustizia. Il dramma c’è, in quei 12 angry men, ma il sogno americano, classicamente fissato sulla nobilità di un singolo individuo eroe, funziona, rimette le cose a posto. Non è quel che ci ha raccontato Clint. Ci sta dicendo che la verità giudiziaria e la verità reale divergono. Il “sistema” non è la terra promessa. Il sogno americano non funziona, perlomeno nei tribunali.
Dal film di Lumet, Giurato numero 2 prende solo qualche pretesto: le angustie e i livori dei giurati, il vecchio testimone che cerca un po’ di gloria, prestandosi alla versione preconfezionata dalla polizia, come la vecchia testimone nel film del 1957. Poi, però, la storia messa in piedi da Eastwood prende tutta un’altra piega ed è un susseguirsi di colpi di scena che inchiodano per quasi due ore, senza pausa, con la sola forza del racconto, senza effetti speciali.
Che un quasi centenario sappia inquietarci e interrogarci così, è una benedizione. Un vecchio amico diceva a molti giovani, tanti anni fa, “vi auguro di non essere mai tranquilli“. Beh, il vecchio Clint ci ha dato una bella mano in proposito.
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