È appena uscito nelle sale e fa discutere parecchio. Sia perché il finale è aperto a tutte le possibili interpretazioni, sia perché lo spettatore si sente chiamato a prendere posizione non solo su chi sia davvero il colpevole, quanto su come guardare al senso di colpa del protagonista. Infatti, il titolo dell’ultimo film dell’inesauribile Clint Eastwood è giustamente Giurato numero 2, perché è nel travaglio interiore di chi è chiamato a giudicare che siamo coinvolti; e ci interroghiamo anche sui meccanismi del sistema giudiziario statunitense, con le sue giurie popolari a noi sconosciute.



Emblematica e profetica la scena iniziale: un quadretto familiare in cui Ally, una giovane madre incinta, avanza bendata, guidata dall’affettuoso marito Justin Kemp, per scoprire di colpo la sorpresa di una stanzetta arredata di tutto punto per il bimbo in arrivo. I suoi occhi non possono che vedere quello che lei conosce già, l’amore e la premura del suo compagno di vita. Ed è questo il volto che vorrà vedere sempre, anche quando lui sarà chiamato a diventare il giurato numero 2, in un processo che si annuncia inizialmente semplice e veloce. Per fortuna, visto che la gravidanza a rischio della donna è a termine e quindi è necessario il sostegno di Justin, che pensa infatti di concludere presto il suo incarico. Ma l’imprevisto è dietro l’angolo.



Il colpevole perfetto è già stato arrestato: è il collerico fidanzato della vittima (interpretata da Francesca Eastwood, figlia di Clint), come dimostra con osservazioni convincenti il procuratore Faith Killebrev, donna in carriera molto sicura di sé. L’imputato però continua a proclamarsi innocente e il suo avvocato difensore è certo della sua non colpevolezza. Il processo ha una notevole risonanza mediatica perché si tratterebbe del classico femminicidio, compiuto in questo caso da un giovane tatuato con un passato violento, compagno della vittima con cui è stato più volte visto litigare. Ma nello svolgersi delle udienze, che i giurati seguono con attenzione per dare poi il loro verdetto, lentamente Justin, appunto il giurato numero 2, scopre che forse, anche se involontariamente, il vero killer potrebbe essere proprio lui.



Sì, perché la notte in cui la ragazza è morta, un anno prima, lui era là, nel pub dove i fidanzati avevano litigato. Sedeva a un tavolo in disparte, davanti a un bicchierino che però non svuota mai, anche se ne avrebbe avuto bisogno, perché era distrutto per la perdita dei due gemellini che la moglie attendeva. Justin, in passato dipendente dall’alcol, aveva deciso infatti di non bere più e perciò si era avviato a casa in macchina sotto la pioggia battente, per raggiungere la compagna e confortarla.

Lungo la strada buia, però, Justin aveva urtato qualcosa, e aveva creduto di aver investito un cervo, come era del resto possibile, visto il cartello che segnalava il passaggio di questi animali. Del cervo però per terra non c’era traccia. Sconcertato, aveva poi riparato l’auto ammaccata nell’impatto. Solo ora, al processo, si rende conto che forse l’omicida della donna, trovata morta sotto un ponte proprio in quel punto, possa essere stato lui. Il senso di colpa comincia a tormentarlo e lo spinge a schierarsi dalla parte dell’imputato, insinuando nella giuria dubbi anche sulle parole di un testimone che avrebbe riconosciuto il fidanzato violento proprio nel luogo dov’era stata ritrovata la vittima. Justin vuole in realtà che i giurati riconoscano l’imputato innocente, perché si ritiene lui il vero colpevole. Ma non può semplicemente dichiarare che ha causato un incidente stradale, dato che per il suo passato di alcolista la condanna sarebbe quasi sicuramente l’ergastolo. È un padre di famiglia, la moglie ha bisogno di lui; fino a che punto può e deve ritenersi responsabile di una morte che avrebbe comunque provocato inconsapevolmente, certamente in modo involontario? Tanto più che nessuno sembra poter o voler risalire a un altro ipotetico colpevole, e quindi tanto meno a lui; in realtà ogni giurato è guidato soprattutto dalle proprie convinzioni preconcette o peggio dalle proprie convenienze.

C’è chi detesta i tipi irregolari e dai modi brutali come l’imputato, e chi vuole soltanto tornare a casa al più presto dai figli. Insomma, qui emerge con disarmante evidenza che il sistema di giustizia americano non è poi il migliore del mondo, visto che 12 persone assolutamente comuni, come noi spettatori, debbono decidere la sorte di un uomo altrettanto comune, sulla base dell’efficacia delle parole di accusa del procuratore o di difesa dell’avvocato. D’altra parte le prove portate in tribunale non sembrano poi così decisive. Il nostro giurato continua a fare di tutto per salvare il fidanzato della vittima che lui reputa innocente, ma nel contempo sembra deciso a salvare a ogni costo anche se stesso. E la moglie Ally non fa proprio nulla per liberarlo dai suoi tormenti, perché ha solo bisogno che torni a casa accanto a lei. Anzi, cerca di allontanare qualche imprevedibile sospetto del procuratore Faith, che prima invece era così sicura di compiere un atto di giustizia con una condanna che l’avrebbe resa ancor più popolare, e avrebbe costituito un trampolino per la sua promozione a procuratore generale.

Il verdetto sarà giusto? Ma soprattutto vero? Fino a che punto un uomo ha il dovere morale di riconoscere le sue responsabilità? Può la giustizia umana giungere alla verità? Tutte domande a cui Eastwood non vuole dare risposta, ma che piuttosto sollecita con un film dal ritmo incalzante del thriller, alle prese con una questione irrisolta o forse irrisolvibile. Il dilemma morale del giurato numero 2 è anche il nostro, persino in tempi in cui la responsabilità personale sembra scomparire, divorata dagli algoritmi. Tuttavia, resta insopprimibile il desiderio della verità che alberga nel cuore di ogni uomo e a cui sembra alludere l’ultima scena, proprio negli sguardi sospesi del giurato Justin e del procuratore generale, uno di fronte all’altra.

Tutti speriamo che per nessuno dei due il “giusto” sia solo ciò che più conviene, ma che la giustizia sia sempre più vicina alla verità. Alla fine, ci sentiamo inevitabilmente un po’ colpevoli anche noi e – grazie al beneficio del dubbio – meno giustizieri nei confronti degli altri.

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