Giuseppe Ayala definisce “più debole” la mafia e ricorda Falcone e Borsellino. “La cosa più importante da sottolineare è che Cosa nostra ha cambiato strategia: non ammazza più, non fa più stragi, è più debole, anche se non del tutto debellata – sottolinea l’ex magistrato tra le pagine de la Stampa – Lo Stato si è attrezzato e ha messo a segno colpi importanti. L’arresto di Matteo Messina Denaro è uno di questi, seppur tardivo, seppure denso di interrogativi, anche se io non credo alle teorie dietrologiche sul fatto che sia stato un arresto, per così dire, concordato”.



Ricordando quel 19 luglio 1992, Giuseppe Ayala rammenta che “abitavo lì vicino, ho sentito un botto incredibile e mi sono precipitato, in mezzo al fumo. Lì sono inciampato in qualcosa che all’inizio non avevo capito che cosa fosse, era un tronco annerito, senza braccia né gambe, color carbone, ci ho messo qualche istante a capire che era Paolo”. Per l’ex magistrato antimafia “bisogna ricordarsi più spesso che fino al 29 settembre 1982 nel codice penale italiano non esisteva la parola mafia”, la quale fu invece introdotta “dopo l’uccisione del generale Dalla Chiesa”. E sottolinea: “la mafia è un fenomeno umano, ha avuto un suo inizio a avrà una sua fine, come diceva Falcone”.



Giuseppe Ayala, le stragi della mafia e Paolo Borsellino: “mi sostenne assieme con Falcone”

Secondo l’ex magistrato Ayala, in merito alle stragi commesse dalla mafia ci sono ancora delle zone d’ombra “soprattutto sulla fine di Paolo, sul depistaggio, su quell’agenda rossa che non è mai stata trovata. La speranza dopo trentuno anni si è affievolita, ma è ancora viva”. Proprio in merito all’agenda rossa, Ayala respinge con forza bollandola come “pura invenzione” la tesi del carabiniere Giovanni Arcangioli che lo vorrebbe aver aperto la borsa di Paolo Borsellino e aver constatato che era vuota.



Giuseppe Ayala, intervistato da La Stampa, ricorda di Paolo Borsellino che “quando mi candidai nel Partito Repubblicano e lui, uomo di destra, venne a sostenermi in una manifestazione pubblica insieme con Falcone. La fotografia simbolo di Giovanni e Paolo fu scattata in quell’occasione”. Vuole inoltre ricordare che nel corso del maxiprocessoa nessuno fu imputato il concorso esterno, ma l’associazione di stampo mafioso tout court. Si era posto il problema sui cugini Salvo, gli esattori, si era ragionato di questo con Giovanni Falcone, ma poi arrivò Buscetta con le sue rivelazioni. Così uno dei cugini fu condannato in tre gradi di giudizio per associazione mafiosa, l’altro morì nel 1986”.