Il fondatore del Censis e noto sociologo, Giuseppe De Rita, fotografa la situazione dell’Italia nell’ultimo giorno dell’anno 2022, dando una prospettiva tutt’altro che rosea: «Che succederà all’Italia nel 2023? Secondo me quasi niente – spiega al Corriere della Sera – siamo un Paese mediocre con un governo mediocre, anche se mi pare che Giorgia Meloni stia studiando per imparare i meccanismi del sistema. Sa, la mediocrità non è soltanto un male…». Una situazione quindi stabilizzata quella del nostro Paese: «Possiamo anche dirla così. Sa, l’assestamento nasce anche per l’assenza di grandi guastatori. In giro non ne vedo. Al massimo c’è Giuseppe Conte, che cerca di contrastare l’assestamento del sistema. Ma la sua mira sembra mediocre: superare un Pd in declino. Meloni può stare tranquilla».



E a proposito del Pd: «Temo che sia una storia finita, purtroppo. Penso a Enrico Letta – prosegue Giuseppe De Rita – un politico che stimo. Porca miseria, sembra che stia facendo una corsa verso il patibolo, con una sorta di masochismo per eccesso di coerenza. Ma questa è la parte di analisi della politica che magari mi fa eccedere in pessimismo, lo ammetto». C’è comunque qualche motivo per essere ottimisti: «Tutti noi che parliamo di società italiana, dimentichiamo che l’Italia è come un bambino tra gli otto e gli undici anni. Vive nella fase che Sigmund Freud chiamava stato di latenza. Ha ossa, carne, cervello, ma non è ancora formato dall’adolescenza, né sfidato dal futuro. E dunque è come sospeso».



GIUSEPPE DE RITA: “ECCO PERCHE’ L’ITALIA E’ IN UNO STATO DI LATENZA”

Ma perchè l’Italia continua a rimanere in questo stato di latenza? «Per due motivi – replica De Rita, numero uno del Censis – non abbiamo un obiettivo preciso per il futuro, perché il Piano di ripresa non coinvolge. È stato vissuto solo come: arrivano tanti soldi. E poi perché non sono arrivate le grandi crisi che nel passato ci hanno fatto avanzare: il dopoguerra, il terrorismo e la crisi petrolifera negli Anni Settanta, il made in Italy e il craxismo degli Anni Ottanta del secolo scorso».



Il covid e la guerra in Ucraina evidentemente non sono servite a fare da volano: «Non le trascuro. Ricorda? Ci dicevano che “dopo” saremmo cambiati, e invece siamo rimasti gli stessi. Nonostante i morti, l’inflazione, quelle tragedie non sono state percepite come crisi trasformative. Socialmente non siamo in terapia intensiva. È come se fossero soprattutto problemi che riguardano gli altri. Anche sulla guerra non abbiamo un’idea collettiva. Gli italiani – ha proseguito – non le hanno percepite come sfide da affrontare collettivamente: al massimo hanno avuto paura per sé stessi, per esempio con la pandemia. Ma senza uno choc, dalla latenza l’Italia non esce. Le grandi stagioni sono nate da choc, dal dispiegamento di energie come risposta alla crisi».

GIUSEPPE DE RITA: “GOVERNO MELONI? NESSUNO CHOC”

E nemmeno il governo Meloni, un esecutivo di rottura, è stato vissuto da molti in maniera scioccante: «Per ora no. Dire che dietro questo governo ci sia ancora Draghi non è così stravagante. Non nel senso che lo guidi o lo influenzi nell’ombra ma che esiste un’inerzia dei processi economici e politici, indotti anche dall’adesione all’Europa, ai quali Giorgia Meloni non può sottrarsi. Il sistema risucchia e appiattisce tutti. Ricordiamoci la crisi del 2011, lo spread a 500, Mario Monti. Lui e Mario Draghi non sono certo dei mediocri, eppure sono stati costretti a scendere a patti con la mediocrità del sistema». In ogni caso mediocarità non è così male: «Io ci credo, alle virtù della mediocrità – prosegue Giuseppe De Rita – se non altro perché ha fatto crescere il Paese nel passato. Il boom degli Anni Sessanta del ‘900 è stato promosso dallo strato medio dei mediocri Brambilla e dalla quasi banalità della Fiera di Milano. Mediocri ma funzionavano».

Il presidente del Censis conclude la propria disamina dicendo: «Le ambizioni del governo Meloni? Durare due anni, e in questi due anni usare la mediocrità italiana e tirarne fuori qualcosa di buono. Questo è un Paese-betoniera, da governare costruendosi un apparato, una classe dirigente. Meloni deve giocare sui tempi più o meno lunghi, non sognare i sei mesi fiammeggianti di un John Kennedy. Il pericolo, anche per lei, è il presentismo che ha afflitto un po’ tutti in questi anni. Il presentismo dà l’illusione di esserci, ma in realtà ci toglie la sfida dei rischi e segnala la mancanza di tempo: senza che ce ne accorgiamo».