Giuseppe De Rita, presidente del Censis, fa il ritratto dell’Italia del Coronavirus e non è un bel ritratto, nostante la situazione sia di per sé certamente meno grave rispetto ad esempio al Dopoguerra, che essendo nato nel 1932 ricorda molto bene. Ecco cosa ha detto dunque De Rita in una lunga intervista per La Repubblica:
“In questi giorni mi capita spesso di pensare alla guerra. Avevo tredici anni e certe notti per la fame non riuscivo a dormire. Guardavo il soffitto e non mi addormentavo. Poi il conflitto finì, e io sentivo di essere già un uomo. Capivo che avrei dovuto fare uno sforzo immane per uscire da quella notte. E come me lo sapevano anche gli italiani. Tutto attorno a noi era in macerie, però ce l’abbiamo fatta, siamo diventati la quinta potenza nel mondo”.
Lavorare duro sarà la chiave per uscire anche dalla crisi attuale: “Ho quasi 88 anni e vado in ufficio al Censis ogni mattina. In questo momento nessuno dei nostri clienti pensa di affidarci una ricerca, hanno tutti la testa da un’altra parte, però cerchiamo di farci venire delle idee, per fare quei 50-60 contratti che ci danno da campare: altrimenti moriamo”. Il modello è appunto l’Italia del 1945: “Eravamo straccioni e lo Stato non poteva aiutare nessuno, al massimo qualche pensione di guerra e un po’ di edilizia, eppure tutti si rimisero a faticare senza risparmiarsi”.
DE RITA: “ITALIA, SERVE LO SPIRITO DEL 1945”
De Rita nota profonde differenze tra l’Italia di allora e quella attuale: “Noto questo: si tende a delegare tutto allo Stato, anche la beneficenza. Mi ha colpito che le grandi imprese abbiano donato in buona parte alla Protezione civile. Abbiamo statalizzato la pandemia”. Ma lo Stato, averte il celebre sociologo, “non potrà farsi carico di 60 milioni di italiani. Proprio perché è una crisi così profonda, la si risolve con uno scatto di ognuno di noi“.
Allora fu la fatica di una generazione a fare grande l’Italia, stavolta “bisognerà farsi venire delle idee. Tutta l’energia psichica è rivolta ai vertici. Non possiamo aspettare anche il bonus vacanze”. De Rita appare preoccupato soprattutto da “una stanchezza che viene da lontano e a cui ha contribuito anche un’élite al potere che non ha incitato alla vitalità dei soggetti: quasi un invito a non correre troppo”. Giuseppe De Rita definisce dunque l’Italia di oggi un Paese “sovvenzionato ad personam, idea che non sfiorava la generazione della guerra. Con questa politica tra un anno lo Stato non avrà più un euro in cassa”.
Il sociologo vuole comunque restare ottimista: “Questo Paese l’ho visto crescere e sono cresciuto con lui: è un Paese straordinario“. Molto meno tuttavia lo è la classe dirigente “che fa le cose in base alle reazioni dei social. Ministri più protesi a fare un tweet azzeccato che a capire a fondo un dossier di dieci pagine: è l’accusa che ci fanno in Europa”.
DE RITA: “ESPERTI BOCCIATI, CONTE SI COPRE LE SPALLE”
Il suo Censis aveva parlato già di un’Italia rancorosa prima che scoppiasse la pandemia da Coronavirus. Adesso Giuseppe De Rita approfondisce l’analisi: “La definizione coglieva il lutto per qualcosa che non c’era più: come due sposi che si separano e che litigano furiosamente perché non sono riusciti a salvare il loro amore. Ma il virus non è colpa nostra, stavolta non possiamo avere rancore: manca il coniuge separato”.
La critica di De Rita colpisce anche gli esperti: “All’inizio ci hanno detto di lavarci le mani e di tenere le distanze: due mesi dopo siamo ancora lì. Non li giudico, ma osservo le conferenze stampa: sono molto autoreferenziali. Ogni esperto cerca di spiegare quanto è bravo“. Conte ha delegato agli esperti per coprirsi le spalle, “poi la politica fa come gli pare“.
Da cattolico, un piccolo dolore è arrivato a Giuseppe De Rita anche dalla Chiesa: “Ha dovuto chiudere le chiese, e si è creato un vuoto che pesa”. L’appello finale è all’insegna della speranza ma a una condizione: “L’Italia ce la farà? Sì, ma servirà molto ardore“.