Delle sette tracce disponibili nei plichi della Prima prova della Maturità 2024, al testo “Storia d’Europa” di Giuseppe Galasso è stata dedicata la traccia svolta della Tipologia B1, ovvero il tema argomentativo: di seguito vi lasciamo la traccia svolta da Leonardo Monni per conto de IlSussidiario.net. 



COMPRENSIONE E ANALISI – PRIMA PROVA TRACCIA SVOLTA TEMA TIPOLOGIA B1 MATURITÀ 2024

Nel testo citato, tratto dalla sua opera “Storia d’Europa”, lo storico Giuseppe Galasso formula alcune riflessioni sulle dinamiche internazionali del secondo dopoguerra. Partendo dal concetto, ossimorico, di “guerra fredda”, intesa come uno stato di conflitto fra le potenze, perfino più intenso che nel passato, ma tuttavia caratterizzato da un’assenza di scontri di tipo bellico, egli prosegue individuando la causa di tale inedita situazione nell’“equilibrio del terrore”, cioè nella convinzione, comune alle superpotenze, che una nuova grande guerra, allo stato delle tecnologie e, soprattutto, della potenza distruttiva delle armi atomiche, avrebbe condotto alla distruzione generale della civiltà umana soprattutto per i danni all’ambiente terrestre. Seppure, appunto, la minaccia atomica su larga scala fungesse da deterrente a nuove guerre, l’autore rileva come, negli anni successivi, vi sia stata la preoccupazione di frenare la corsa ai nuovi armamenti, i quali, se nella disponibilità di Paesi meno abituati delle grandi potenze a riflessioni razionali e condivise sull’uso della forza, avrebbero potuto condurre a conseguenze irreparabili per l’intera umanità.



PRODUZIONE – TRACCIA SVOLTA TEMA TIPOLOGIA B1 PRIMA PROVA MATURITÀ 2024: GIUSEPPE GALASSO

Dalla fine del tragico secondo conflitto mondiale sono passati quasi 80 anni: sono tanti o sono pochi a seconda dell’occhio che li guarda. Sono tanti agli occhi di un adolescente, abituato ai tempi brevi del mondo digitale che ci schiaccia nella contemporaneità tentando di troncare qualunque legame con il passato; sono pochi per chi, oggi anziano, all’epoca già era in questo mondo, e gli orrori di quella guerra li ha vissuti sulla propria pelle e li ricorda, fosse da una parte o dall’altra dei mutevoli schieramenti che l’hanno caratterizzata.



In questi 80 anni quasi tutti i paesi dell’Europa hanno sperimentato un’assenza di guerra; essa, tuttavia, è comparsa sul continente, e anche violentemente, nell’ex-Iugoslavia degli anni 90, nella forma più tossica della guerra civile, etnica, a pochi chilometri di mare dalle coste marchigiane o abruzzesi dove gli italiani erano serenamente in vacanza.

In questi 80 anni il mondo non ha più conosciuto, fortunatamente, guerre a dimensione planetaria, ma ha conosciuto, dolorosamente, decine, centinaia, forse migliaia di guerre che, con troppa facilità, si definiscono “locali”, come se la sofferenza e il sacrificio di soldati e civili di quei popoli valesse meno, fosse degno della nostra disattenzione. Si pensi all’Africa, di cui in pompa magna si è celebrata la decolonizzazione, salvo poi cadere nel disordine generale e nelle mani di altre potenze. Sì, perché quasi sempre le parti contrapposte di questi conflitti locali erano (e sono) sostenute dalle grandi potenze internazionali; per esse neanche c’è più la necessità di inviare soldati propri, come nel famoso caso della guerra del Vietnam; è sufficiente erogare corposi sostegni finanziari.

L’equilibrio del terrore ha caratterizzato il mondo bipolare dopo il 1945, con la gara agli armamenti nucleari tra Stati Uniti e Unione Sovietica e i tentativi di altri Stati, come la Francia, di inserirsi nella partita. Esso potrebbe ancora reggere, almeno teoricamente, come principio, anche nel sistema multipolare nel quale ormai ci troviamo: il pericolo dell’annichilimento dell’intera razza umana potrebbe rimanere sufficientemente effettivo ancora per molti anni.

È vero, non conosciamo con esattezza l’avanzamento degli studi in tecnologie di difesa anti-nucleare, su cui le potenze hanno ogni legittimo interesse a mantenere il segreto; ma la constatazione che ai progressi difensivi ne corrispondano altrettanti offensivi sembra sufficiente a mantenere in piedi il sistema della deterrenza, almeno nel breve periodo. Ma nel lungo? Potrà una potenza sviluppare sistemi di difesa e di attacco così performanti da sconfiggere gli altri in una guerra nucleare senza essere investita dalla conseguente distruzione? Non è da escludersi. Potranno gli uomini sviluppare sistemi pacifici di soluzione delle controversie che li tengano per sempre al riparo dal flagello della guerra, che, convenzionale o nucleare, non è mai qualcosa di desiderabile?

Verosimilmente la guerra resterà una opzione per i potenti ancora per lungo tempo, in quanto espressione crudamente suprema della tentazione alla violenza che abita il cuore dell’uomo da Caino in poi, e volerla sradicare “per sempre” non denoterebbe che mancanza di realismo e ideologica ingenuità. Non va, tuttavia, trascurata l’opportunità di sviluppare alcuni organismi intergovernativi come l’ONU, che, seppure imperfetti e segnati dagli equilibri usciti dalla Seconda Guerra, costituiscono importanti luoghi di dialogo e di negoziazione fra Stati che hanno ridotto e ancora potranno ridurre la necessità di conflitti armati.

Resta infine, come provocazione conclusiva, la domanda che Dio rivolge a Caino dopo l’uccisione di Abele: “dov’è tuo fratello?”; alla quale egli non sa rispondere altro che “sono forse il custode di mio fratello?”. Questo dialogo è di incredibile attualità. I capi degli Stati possono adoperarsi per la pace, perseguendo il prestigio nazionale senza l’uso della forza, possono elaborare strategie comuni o tribunali internazionali; ma nessuno di noi è al momento capo di Stato né, verosimilmente, lo diventerà in tempi brevi. Occorre dunque non perdere di vista il ruolo di ognuno nel perseguire questa pace: non la banale “assenza di guerra” (anche se già non è poco, in fondo, essere qui a scrivere un tema e non in trincea), ma realmente la “pace” intesa come un senso vero per la propria vita che ha in sé un movimento verso l’altro, l’alterità (etnica, politica, religiosa, economica) con la quale o si entra in dialogo o si entra in conflitto; tertium non datur. È in questa cultura, in questa responsabilità personale che si radica una ulteriore possibilità di pace globale, da aggiungere agli strumenti indispensabili della politica dell’equilibrio e del diritto internazionale; perché, se davvero i politici sono specchio della società che li esprime, in una società immersa, educata ad una cultura di pace è maggiore la possibilità, fosse anche solo statistica, che i potenti possano essere uomini di pace e non meri evitatori di conflitti.