Bello vedere l’8 gennaio il Teatro del Maggio Fiorentino pieno in ogni ordine di posti (circa 1900) per una replica pomeridiana di una nuova produzione, la quinta dal 1985, dell’opera di Verdi più difficile da mettere in scena. Soprattutto dopo che poche settimane prima, una differente produzione della medesima opera scelta per l’inaugurazione della stagione del San Carlo a Napoli ha fatto un vero e proprio tonfo.
Don Carlos (nella versione francese) o Don Carlo (in quella italiana) è l’opera più complessa e monumentale di Verdi, su libretto di Joseph Méry e Camille du Locle tratto dall’omonima tragedia di Friedrich Schiller. La prima rappresentazione, in cinque atti e in lingua francese, ebbe luogo l’11marzo 1867 alla Salle Le Peletier del Théâtre de l’Académie Impériale de Musique di Parigi. In Italia la prima si tenne il 27 ottobre1867 al Teatro Comunale di Bologna con Angelo Mariani (direttore d’orchestra), Teresa Stolz, Antonietta Fricci ed Antonio Cotogni nella traduzione di Achille De Lauzières-Thémines ed Angelo Zanardini. Nel 1872 Verdi operò alcune modifiche minori con la collaborazione di Antonio Ghislanzoni, il librettista di Aida. La revisione più importante fu realizzata oltre dieci anni dopo e comportò l’eliminazione dell’originario atto primo.
Le modifiche al libretto furono messe a punto da du Locle: la versione in quattro atti andò in scena al Teatro alla Scala di Milano il 10 gennaio 1884 nella revisione di du Locle per la traduzione di de Lauzières-Thémines e Zanardini. Due anni dopo Verdi si pentì del taglio. La nuova (terza) versione dell’opera andò in scena per la prima volta al Teatro Comunale Nuovo di Modena, il 29 dicembre 1886, in una nuova edizione in cinque atti (senza le lunghe danze dell’originale francese) che fu anche pubblicata da Ricordi nella riduzione per canto e pianoforte. La sua stesura fu abbastanza lunga e impegnò Verdi per oltre un anno.
Le differenze tra le tre versioni sono esaminate in vari studi. Si raccomanda quello di Francesco Degrada che contiene un’utile tavola sinottica. Preferisco la terza, ossia quella del 1886, perché meglio delle altre contiene la prospettiva storica in cui si inserisce la complicata trama dell’opera. Luchino Visconti in un allestimento per il Teatro dell’Opera di Roma (che ho avuto la fortuna di vedere anche a Firenze) legge il monumentale lavoro come una descrizione del declino degli Asburgo di Spagna. È, a mio avviso, un’interpretazione corretta.
Delle tre versioni, la prima non è quasi mai messa in scena, anche perché lo spettacolo (con balletti ed intervalli) durerebbe tra le sei e le sette ore; esiste un’incisione del 1985, diretta da Claudio Abbado e con un cast stellare, ma i tempi lenti adottati dal direttore d’orchestra la rendono noiosa, oltre che lunghissima. Ho il ricordo di un allestimento della metà degli Anni Settanta della Boston Opera portato a Washington dove allora vivevo: Sarah Caldwell produsse il Don Carlos parigino, con scene e costumi presi in prestito dalla San Antonio Opera e dalla San Francisco Opera ma fu costretta a tagliare il lungo ballabile. Anche così «mutilata», si trattava di cinque ore a cui aggiungere intervalli per pietà dei cantanti.
La versioni più spesso allestita in Italia (anche per ragioni di costo), è la seconda senza il primo atto. In questa produzione fiorentina, questa è la versione scelta, di solito chiamata versione «Scala 1884» in quattro atti. Vi manca, però, il riferimento ai sogni giovanili dei due protagonisti (ed al «matrimonio di Stato» imposto contro la loro volontà) – tema che, però, riaffiora in vari punti dell’opera.
Tranne il primo atto delle versioni del 1868 e del 1886 (in pratica un prologo), l’azione si svolge interamente a Madrid e dintorni. Contiene i principali temi della poetica verdiana di quel periodo: a) i rapporti tra padri e figli; b) il potere politico; c) la religione o meglio le Chiese.
I rapporti tra Filippo II, Imperatore, ed il suo unico figlio maschio e, quindi, erede al trono, Don Carlo, sono oltremodo complicati e non hanno come in altre opere di Verdi una soluzione positiva. Filippo II sposa, per facilitare la pace tra Francia e Spagna, Elisabetta di Valois che credeva di essere fidanzata (ed innamorata corrisposta) con il coetaneo infante Don Carlo. Filippo II ha anche come amante la principessa d’Eboli, la quale, invece, è sessualmente attratta da Don Carlo. In questo pasticcio, la situazione si incarta. Spinto, in parte, dal suo grande amico, l’idealista Don Rodrigo Marchese di Posa, Don Carlo tenta di fuggire con Elisabetta verso «un mondo migliore» ma vengono colti sul fatto e condannati a morte. Li salva il nonno di Don Carlo ed il padre di Filippo II, Carlo V, che tutti davano da anni per defunto ma che si era rinchiuso in convento e riprende «il manto e la corona regal» per risolvere l’intricata situazione.
Sui rapporti interpersonali gravano quelli politici. Filippo II ha ereditato da Carlo V «l’impero su cui non tramonta mai il sole», il maggiore impero del suo tempo, raggiungendo, nel XVIII secolo, una superficie di 18,4 milioni di km². Filippo II era autoritario; secondo numerosi storici, cominciò con il suo Governo la lunga decadenza della Spagna. Nell’opera, Don Carlo ed il suo sodale Don Rodrigo hanno compreso la situazione, soprattutto per quanto riguarda la ribellione in corso nelle Fiandre. Tanto per allontanarsi dal complicato intreccio sentimentale quanto per dare prova delle sue capacità politiche, Don Carlo chiede ripetutamente a Filippo II di dargli una delega per tentare di risolvere i problemi nelle Fiandre, ottenendo dinieghi sempre più forti, ed anche la morte di Don Rodrigo. Tuttavia, c’è qualcosa a cui devono sottostare anche Filippo II e la sua Corte: l’Inquisizione.
E qui abbiamo il confronto tra due Chiese oppure tra due volti della Chiesa cattolica romana: l’Inquisizione ed il Convento di San Giusto. Alla prima da corpo il Grande Inquisitore, cieco, crudelissimo – gode a fare ardere al rogo un gruppo di «eretici» – più potente dell’Imperatore, a cui chiede di fare uccidere l’infante ed il quale si prostra ai suoi piedi per chiedere «che tra noi la pace alberghi ancor» ottenendone come laconica risposta un «forse?». Il secondo non è l’eremo spoglio e povero de La forza del destino; è, pur sempre, la Chiesa della Corte, animata da cori di frati. Ma è un luogo di redenzione, come dice Carlo V travestito da monaco nel finale dell’opera.
Restano interrogativi al termine di quella che è l’opera forse più complessa di Verdi, non solo di quello «spagnolo». Chiaro è il desiderio di un legame affettivo stretto tra genitori e figli (che a Verdi mancò per tutta la vita a ragione della morte prematura dei suoi bambini) sia il rigetto della politica «politicante». Meno evidente il rapporto con la Chiesa: in Don Carlo e in La forza del destino, vengono respinte «la Chiesa pompa» e «la Chiesa potere». Il Convento di San Giusto è quasi manzoniano.
In questo contesto, la regia di Luchino Visconti, portata a Firenze nella stagione 2004-2005, aveva un significato: vedere il monumentale lavoro come l’inizio della fine degli Asburgo di Spagna. In questa nuova produzione l’aspetto più discutibile è la regia di Roberto Andò (e le scene di Gianni Carluccio, nonché i costumi Nanà Cecchi ed, i fortunatamente pochi, video di Luca Scarzella).
L’opera non è più un affresco monumentale ma un dramma intimista della solitudine ed incomunicabilità dei protagonisti (Carlo, Elisabetta, Marchese di Posa, Principessa d’Eboli, Filippo II). L’azione si svolge in una scena unica che, con pochi spostamenti di attrezzeria, divengono i numerosi luoghi della complessa vicenda. Il tutto è avvolto da una fitta nebbia. La recitazione pare ispirata a quelle dei teatri di provincia nella seconda metà degli Anni Cinquanta. Non mi soffermo su altri dettagli, ad esempio perché mostrare il Grande Inquisitore quale che fosse il Patriarca Kirill della Chiesa Ortodossa Russa.
Il clima intimista si avverte anche in buca: Daniele Gatti, che ha diretto a memoria, striscia a volte i tempi ma è alla guida della magnifica orchestra del Maggio Fiorentino che scava nei momenti di solennità. L’utilizzo della seconda orchestra, e anche degli ottoni, nella galleria laterale dà ottimi effetti stereofonici. Come sempre, ottimo il coro preparato da Lorenzo Fratini. Altro aspetto interessante: in questa lettura orchestrale, si avverte la modernità dell’opera, pochi «numeri chiusi», recitativi e declamato di gran classe. Come sempre, ottimo il coro preparato da Lorenzo Fratini, specialmente nel grande quadro dell’incoronazione e dell’autodafé.
Andiamo alle voci. Francesco Meli (Carlo) e Eleonora Buratto (Elisabetta) hanno il tocco perfetto. Di Melli si avverte lo squillo, nella particolare accezione verdiana sin dalla cavatina «Io l’ho perduta”» Magnifici i loro duetti, struggente quello del quarto atto. La Buratto trionfa nella difficile aria «Tu che la vanità». Ekaterina Semenuch è una principessa d’Eboli volitiva e sensuale, che affronta con destrezza «la canzone del velo», il duetto, che si trasforma in terzetto, del secondo atto e soprattutto «O don fatale» nel terzo atto. Mikail Petrenko è un Filippo II più tormentato che solenne: ben cesellato nel duetto con il Marchese di Posa (Massimo Cavalletti), pare perdere vigore in quello con il Grande Inquisitore (Alexander Vinogradov). Credo sia da attribuirsi in buona parte alla regia. Un po’ deludente Massimo Cavalletti: conosce bene il ruolo (lo ho ascoltato più volte pure a Firenze), in questa produzione canta unicamente una sera (le altre sono affidate a Roman Burdenko) e pareva non dominare la sua voce stentorea (ma poco modulata). Forse a ragione di poche prove.
In breve, nebbia sul palco ma molte luci in orchestra e nelle voci.