Se si trattasse di una gara, si potrebbe dire che il Teatro dell’Opera di Roma batte La Scala di Milano per originalità di proposta, impegno produttivo, coinvolgimento di tutte le maestranze della fondazione e risultati nella scelta e realizzazione dell’opera con cui inaugurare la stagione 2019-2020: Les Vêpres Siciliennes di Giuseppe Verdi.
È un vero evento perché dal lontano 1855 – quando questo grand-opéra (il primo scritto dal compositore di Busseto) debuttò al Teatro Imperiale dell’Opera – viene dato raramente in edizione originale in francese, completo di balletto. In Italia, solamente nel 1997 a Roma ed a Napoli è stata presentata un’edizione integrale dell’opera. A Roma la si era ambientata nel 1855 e le si era data una patina risorgimentale. A Napoli, la si era collocata in una Palermo bizantina. Una decina di anni fa, a Parma e Torino se ne è vista una versione italiana senza balletto, piena di tagli e con una traduzione ritmica improbabile: nell’allestimento emiliano, trite convenzioni di situare la vicenda nel Risorgimento, ancora peggio a Torino, dove i “vespri” venivano ambientati all’inizio del 1990, tra le stragi di mafia, la caduta di Craxi e l’avvento di Berlusconi.
L’edizione romana (regia Valentina Carrasco, scene di Richard Peduzzi, costumi di Peter van Paert, direzione musicale Daniele Gatti, cast di primo livello) è invece in francese, filologicamente corretta ed integrale: si può così finalmente vedere ed ascoltare Les Vêpres Siciliennes come inteso da Verdi. Attenzione, anche all’estero, si utilizza spesso la versione tagliata in italiano (di cui esistono numerosi CD) mentre l’originale venne rilanciato, negli Settanta del secolo scorso, da una strepitosa produzione all’Opéra di Parigi. E’ in commercio un DVD dell’integrale in francese alla Royal Opera House di Londra; diretta da Antonio Pappano, l’opera è ambientata nel 1855 ed il balletto del terzo atto spezzettato in vari frammenti nei cinque atti del lavoro.
In tempi non sospetti, Leonardo Sciascia, che di vicende siciliane se ne intendeva, dimostrò che il racconto di Michele Amari sulla rivolta anti-francese in occasione dei “vespri pasquali” del 1282 era pura leggenda, alimentata nel Risorgimento per trovare tracce antiche nell’orgoglio anti-straniero di una Sicilia che, invece, esprimeva ed esprime un mix di culture, etnie e tradizioni ed ha sempre avuto la caratteristiche di essere molto tollerante nei confronti dello straniero. Al mito, Verdi e i suoi librettisti si riallacciano unicamente nel titolo e nell’ambientazione, un Medioevo bizantino da grand opéra. Il libretto, già utilizzato per Il Duca d’Alba di Gaetano Donizetti (opera rimasta incompleta ma terminata da un suo allievo e portata in scena per la prima volta al Teatro Apollo di Roma nel 1882), di risorgimentale non ha nulla, tanto più che il lavoro era stato commissionato dai Teatri Imperiali di Napoleone III, non certo un fautore dell’Unità d’Italia ma al contrario difensore ufficiale del dominio temporale della Chiesa.
Ciò non vuol dire che Les Vêpres Siciliennes nei suoi vari adattamenti per il pubblico italiano (il più frequente, intitolato Giovanna de’ Guzman, trasferiva la vicenda dalla Sicilia del mito a un improbabile Portogallo) non venne intesa come opera “risorgimentale”. Tuttavia nella seconda metà dell’Ottocento venne rappresentata poco a ragione degli alti costi di allestimento e di uno stile musicale a cui il pubblico soprattutto italiano era poco avvezzo, nonostante il lavoro abbia il germe di gran parte degli sviluppi futuri di Verdi. Con Les Vêpres, Verdi porta nel grand opéra (anche il compositore parlava di “grande boutique”) un dramma molto intimo e molto personale: quello dei rapporti tra padre e figlio, un argomento centrale dell’estetica verdiana come mostrano Rigoletto, Trovatore, Traviata, Simon Boccanegra e Aida.
In aggiunta, la rivolta che nel lontano 1282 avrebbe innescato la cacciata degli Angioini dalla Sicilia non viene affatto vista con occhi benevoli: avviene per caso, in seguito quasi a un errore, nel finale dell’opera, dopo che i nodi centrali si sono risolti (specialmente quello del rapporto tra i due protagonisti maschili). Infine, il personaggio di Giovanni da Procida (spesso travestito in fogge mazziniane) è l’unico davvero negativo: il “malvagio” che fa scattare un eccidio inutile dopo che si è conclusa la pace. In numerose versioni del tardo Ottocento, il finale veniva addirittura cambiato per fare sparire “il cattivo” (Mazzini e i mazziniani si sarebbero offesi) e terminare con un festoso banchetto nuziale, quindi con un lieto fine all’ora del vespro.
In questa produzione romana, l’ambientazione è contemporanea ma non si individua un luogo od un’epoca precisa. Degli usurpatori hanno preso la terra e le donne ai legittimi proprietari che si ribellano per riavere il maltolto. La scena è unica, come nella produzione della Royal Opera House; nell’edizione britannica è la platea dell’Opéra- Palais Garnier a metà ottocento (con il coro nei palchi), in questa Peduzzi fa emergere il dramma collettivo ed individuale in una Sicilia arida, arsa dal sole, dove il mare trapela all’orizzonte ma solo nel secondo dei cinque atti (la rappresentazione è divisa in tre parti, con due intervalli per una durata complessiva di quattro ore e mezzo). Sembra di essere nella Sicilia centrale delle miniere di zolfo e delle cave di pietra. Gli elementi scenici sono semplici, anche a ragione di aspetti strutturali del Teatro dell’Opera, ma efficaci. C’è una lettura politica che si intreccia sia con il dramma intimo (la relazione tra padre e figlio) che tanto stava a cuore a Verdi sia con il contesto rivoluzionario.
La lettura musicale di Daniele Gatti, possibile grazie all’ottimo livello dell’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, è molto diversa da quelle, ad esempio, di Gianluigi Gelmetti, ascoltato a Napoli nel 2011, e dell’allor giovane, Riccardo Chailly in una produzione (della versione in italiano) a Bologna nel 1986, memorabile per il cast vocale, la regia di Luca Ronconi e le scene ed i costumi di Pasquale Grossi. Gatti, meglio di altri sottolinea come Verdi, da un lato, stringa i tempi di mezzo e, da un altro, intrecci temi conduttori (mnemonici, non wagneriani) specialmente quello del terzo atto (sul rapporto tra padre e figlio) con altri. I brevi tempi di mezzo sono una sfida per l’orchestra, che risponde brillantemente. Il motivo conduttore del rapporto tra padre e figlio assume una forte connotazione melodica che Gatti sottolinea già nella grande introduzione orchestrale.
Con un vero coup de théâtre il balletto del terzo atto non è il solito elemento decorativo che sfocia nella congiura contro i francesi, ma la rievocazione dell’antefatto politico tramite i ricordi (ed i sentimenti) dei protagonisti. Alcuni nel pubblico non hanno gradito, ma è stato calorosamente applaudito da gran parte degli spettatori.
Come in tutte le grand opéras ci sono numerosi personaggi in scena, ma i veri protagonisti sono quattro (Hélène, Henri, Guy de Monfort. Jean Procida) ed il coro diretto mirabilmente, come sempre, da Roberto Gabbiani.
I tre protagonisti maschili sono perfetti anche nella dizione in francese, sempre una sfida difficile per cantanti non di madre lingua. Pertusi è un Jean Procida, l’unico personaggio che non abbia uno sviluppo psicologico nell’opera, tutto di un pezzo; di grande impatto sin dalla cavatina Palerme, ô mon pays che gli ha meritato applausi a scena aperta. Lo Henry di John Osborn ha la giusta tessitura alta e splendidi acuti che sfoggia nel duetto con Roberto Frontali (Guy de Monfort) Au sein de ma puissance e nell’aria Ainsi vous gémissez. Altre occasioni per applausi a scena aperta. Héléne è Roberta Mantegna, un soprano drammatico di agilità) che ha iniziato una brillante carriera con il ”Progetto Fabbrica” del Teatro dell’Opera; nel primo atto ha contenuto il volume che è esploso negli altri, specialmente nell’aria Merci, jeunes amie del quinto atto. Come sempre di ottimo livello il coro.
Circa dieci minuti di applausi al calar del sipario.