La stagione invernale del Teatro dell’Opera di Roma è terminata il 3 giugno con Ernani, quinta opera di un allora giovane Giuseppe Verdi, che debuttò con successo a La Fenice il 9 marzo 1844, opera concepita, quindi, per teatro di piccole dimensioni. L’opera resterà in scena sino all’11 giugno.

È utile ricordare quanto ha scritto il musicologo britannico Roger Parker, uno specialista verdiano, distinto e distante dalle “scuole italiane” che spesso esaltano il compositore ponendolo in una luce risorgimentale. Parker nota acutamente che il soggetto non venne scelto da Verdi ma dal Teatro La Fenice, sull’onda del grande successo (europeo, non solo francese) della “tragedia in cinque anni” Hernani di Victor Hugo. Dopo Nabucco ed I Lombardi alla Prima Crociata ambedue composti su commissione del Teatro alla Scala, Verdi lavorava per un teatro più piccolo e su un palcoscenico ridotto rispetto alla massima scena milanese. Quindi, si concentrò più che sul contesto storico ed i frequenti cambiamenti di ambiente, sui conflitti personali, controllando con cura la complessa sequenza di azioni necessarie per portare i personaggi ad intensi confronti-scontri.



Questo aspetto su cui varrebbe la pena riflettere in una nota diretta specificatamente alla regia ed agli aspetti scenico-drammaturgici dello spettacolo, comporta modifiche agli stilemi del melodramma a numeri chiusi prevalente in Italia nel 1830-40: le arie solistiche si espandono e si arricchiscono, i duetti ed i terzetti diventano più complessi, i nessi che legano i singoli numeri musicali diventano più flessibili e meno legati alla poetica allora prevalente. In questo contesto, Ernani è forse la prima opera verdiana in cui l’attenzione del compositore, che lavorò molto al libretto, si incentrò più su intere scene che su singoli “numeri”, il passaggio fondamentale per giungere dieci anni più tardi alla trilogia popolare (Rigoletto, Il Trovatore, Traviata).



C’è una grande innovazione rispetto alle convenzioni operistiche dell’epoca: il solito brillante rondò per la prima donna è sostituito da un terzetto dalla durata di quasi mezz’ora. Ernani divenne rapidamente immensamente popolare. Verdi l’ha anche rivista, aggiungendo un’aria con coro su richiesta di Gioacchino Rossini, oltre ad una cabaletta. Un’ultima notizia essenziale per comprendere il contenuto musicale di Ernani: al triangolo tradizionale tenore, soprano, baritono, Verdi aggiunge un ruolo da protagonista per il coro, che diventa particolare vibrante in Si ridesti in Leon di Castiglia (diventato spesso Si ridesti il Leon di Venezia) dopo la seconda guerra d’Indipendenza. Occorre, infine, ricordare che più o meno nello stesso periodo, Vicenzo Bellini stava lavorando ad un Hernani su libretto di Felice Romani, opera mai completata (ma ne esiste un ottimo CD dei “frammenti”) i cui stilemi musicali sono molto differenti da quelli verdiani.



Quando compose l’opera, nelle vene di Verdi bruciava la fiamma rivoluzionaria. La sua ribellione era contro la religione dei suoi padri e antenati perché Dio Onnipotente aveva lasciato morire sua moglie e i suoi figli in un lasso di tempo molto breve. La sua rivolta era anche contro l’establishment che non apprezzava affatto la sua relazione fuori dal matrimonio con il soprano Giuseppina Strepponi (che in seguito divenne sua moglie). Verdi non era contrario alla dominazione austro-ungarica di buona parte del Nord Italia. In effetti, l’opera era stata commissionata (per ben 12.000 lire austriache) dal Teatro veneziano La Fenice. Il soggetto doveva essere rivoluzionario fin dall’inizio. Verdi e Francesco Maria Piave (autore del libretto) avevano pensato ad un’opera su Cromwell, dal romanzo di Walter Scott. Alla fine si rivolsero all’Ernani di Victor Hugo che dieci anni prima era stata la bandiera del Romanticismo francese contro il tradizionale teatro neoclassico.

Il protagonista, Ernani è un nobile diventato bandito non perché punta ad un’unità nazionale della Spagna nel XVI secolo, ma perché voleva che i suoi territori si separassero dalla Spagna e dal resto del Sacro Romano Impero. Infatti, i suoi avversari sono Don Carlo, re di Spagna, che sta per diventare Imperatore dell’intero Sacro Romano Impero (come fa nel terzo atto, ambientato ad Aquisgrana) e il Grande di Spagna Don Ruy Gomez de Silva. Per rendere le cose più complicate – se ce ne fosse stato bisogno – sia Don Carlo che Don Ruy sono attratti dalla donna di Ernani, Elvira. Questo mix di politica, potere, passione e ribellione è tale che Verdi seguì molto la preparazione del libretto.

Come chiaramente dimostrato dalla corrispondenza analizzata in un brillante saggio del musicologo Daniele Spini, Verdi combatté duramente (e vinse) per avere il ruolo di Ernani impostato per un tenore non per un contralto (secondo l’usanza dell’epoca). Ernani è il primo “tenore verdiano” dal timbro molto chiaro, uno speciale fraseggio e arie melodiose per plasmare il melodramma ottocentesco. Così, anche la partitura fu, nel 1844, rivoluzionaria.

L’opera è stata proposta nell’allestimento (regia, scene e costumi) concepiti da Hugo de Ana per la coproduzione con l’Opera di Sydney che inaugurò la stagione 2014.15 del Teatro dell’Opera di Roma, con Riccardo Muti sul podio. Ernani è indubbiamente opera molto amata da Riccardo Muti. Se ben ricordo la scelse per il suo debutto al Maggio Musicale fiorentino nel lontano 1972 e la propose più volte alla Scala. Con il passare degli anni, pure il suo approccio alla partitura è mutato, pur mantenendo una costante: grande attenzione alla “concertazione” delle voci (i quattro protagonisti ed il coro) supportandole con una pulsazione ritmica estremamente dinamica, spesso fondata su temi di danza. Ciò permette di accentuare l’intimismo del lavoro. L’accento si è spostato dal confronto tra la baldanza giovanile del protagonista, la maturità di Re Carlo (Imperatore al terzo atto) e la vendicativa rancorosa senilità di Silva ad uno sguardo (musicale) più sereno sulla complessità dei rapporti umani. L’allestimento di Hugo de Ana sfoggia magnifici costuma ma una grandiosa scena unica ispirata – pare a Piranesi – in cui i vari luoghi della vicenda vengono evocati spostando elementi della scenografia. È una scelta che in parte cozza con l’intimismo della partitura. Inoltre, la macchinosità della scena comporta due lunghi intervalli (di mezz’ora ciascuno) che hanno dato una durata quasi wagneriana alla serata.

Marco Armiliato, sul podio, offre una lettura puntuale e precisa che dà tempi dilatati nel secondo atto e l’occasione nel fare avvertire echi, oltre che donizettiani, rossiniani nella scrittura musicale del trentenne Giuseppe Verdi.

È un Ernani da non perdere soprattutto per le voci. Francesco Meli (Ernani) aveva cantato nel ruolo del titolo nel 2014, quando passò dai ruoli mozartiani che avevano caratterizzato i suoi primi anni di carriera a diventare il tenore verdiano più apprezzato (soprattutto ora che di Jonas Kaufmann si comincia ad avvertire il peso degli anni). Ha superato i postumi del Covid, che lo affliggevano ancora nel recente Un ballo in maschera a La Scala. Il suo squillo è perfetto. Bellissimi gli acuti ed i legati. Perfetta l’impostazione dalla cavatina in formato di doppia aria all’andante del secondo atto fino a Ferma, Crudel, Estinguere nell’ultimo atto. Consumato attore nell’azione scenica.

Elvira è stato uno dei ruoli preferiti di Dame Joan Sutherland. Angela Meade è un noto soprano americano il cui repertorio spazia dal bel canto al verismo: Ha una voce che, come si diceva un tempo, “fa tremare i lampadari”. Sentivo che era a suo agio nell’andantino della cavatina Ernani Involami e in tutte le vocalizzazioni ornamentali che la seguono. È esplosa in tutte le sue capacità vocali nel finale, quando il suo duetto con Ernani divenne un terzetto con Don Ruy (Evgeny Stavinsky), una vera e propria profusione di idee melodiche in cui il lirismo di Meli e Meade si confronta con la grave dissonanza di Stavinsky. Ludovic Tézier è forse il migliore baritono francese su piazza: ha eccelso in O’ De’ Verd’anni Miei, l’aria del terzo atto che è il punto di svolta del dramma; nell’aria è stato in grado di esprimere l’estremo cambiamento di atmosfera — dai cupi ricordi musicali di un baritono florido alla forza ritrovata e all’ampia gamma di espressione.

Il quinto protagonista è il coro, preparato da Roberti Gabbiani. Meno nutrito di quanto è di solito (a ragione di pensionamenti e blocchi alle assunzioni) ha però dimensioni non dissimili da quelle che doveva avere il coro de La Fenice nel 1844. Applauditissimo. Anche se non ha bissato Si ridesti il Leon di Castiglia. Come nel 2014.