Nella mia vita di appassionato di Verdi, non so quanti Requiem ho ascoltato in vari Paesi del mondo, anche in numerose sale di concerto americane, nonché in Corea ed in Tanzania (nei diciotto anni in cui lavoravo in Banca Mondiale). Quindi, avevo messo in programma l’esecuzione del Requiem nella stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in calendario il 28 e 30 novembre ed il 2 dicembre. Sarebbe stato diretto di Mikko Franck, direttore ospite principale dell’Accademia, ed avrebbe avuto un cast stellare. A poche ore dall’esecuzione (o quasi), il direttore ed il tenore hanno dovuto cancellare. Sono giunti in soccorso Daniele Oren (al posto di Franck) e Francesco Demuro (al posto di René Barbera). Occorre complimentare il management dell’Accademia per avere risposto all’emergenza così rapidamente. Naturalmente, il 30 novembre (sera in cui ero in sala) si è ascoltato un Requiem differente da quello (mistico) che avrebbe concertato Franck.



Andiamo con ordine. Secondo numerosi studiosi verdiani, in primo luogo Massimo Mila, il Requiem di Verdi si differenzia marcatamente da altre musiche per funzioni religiose in quanto è un grande melodramma laico ed eroico di riflessione sulla morte: il ventottesimo se lo si aggiunge ai 27 appositamente concepiti per la scena lirica oppure il ventiseiesimo se si li conta in ordine cronologico di composizione e rappresentazione. Come molte figure del Risorgimento italiano (Manzoni, Rosmini e pochi altri rappresentano eccezioni), Verdi era agnostico o quanto meno ‘dubbioso’ in materia religiosa. Lo era diventato dopo la morte della prima moglie e lo era rimasto per tutta la vita. Lo testimoniano non solo i suoi carteggi (disponibili anche in edizioni abbreviate) ma soprattutto le sue opere, specialmente quelle degli anni più prossimi al Requiem; in Don Carlos ed in Aida la Chiesa, sia cattolica sia egiziana, e le sue gerarchie sono rappresentate come opprimenti e spietate nei confronti di tutti (anche del potere politico); ne La forza del destino (che pur si svolge tra chiostri e conventi), la presenza di Dio è confinata nell’ultima scena dell’edizione approntata per l’Italia (ma non c’era nella versione originale per il debutto a San Pietroburgo); in Falstaff, l’addio alla vita è una fuga in cui si sogghigna che “tutto il mondo è una burla”. 

Affermare ed anzi ribadire la natura laica di un Requiem, composto per un’occasione puntuale (il ricordo di Alessandro Manzoni), non vuole dire sminuirne il valore e il significato. E’ un grande capolavoro la cui parte centrale (quel Dies Irae articolato come un immesso atto d’opera) evoca la violenza e vastità del suono di una vita intensamente vissuta e la cui conclusione (la dolcissima Lacrimosa e la struggente Libera Me) è una meditazione sulla fragilità umana di fronte al cosmo. La grandezza, tanto più tragica quanto più immanente, del Requiem appare nelle sue dimensioni se lo si raffronta con i quattro pezzi sacri, tanto eleganti nei loro equilibri da parere quasi artificiali.

Il Requiem diretto da Daniel Oren (e con solisti di vaglio come Eleonora Buratto, Ekaterina Semenchuck, Francesco Demuto e Ain Anger ed il coro guidato da Piero Monti), si differenzia da quasi tutte le esecuzioni da me in precedenza ascoltate, anche di quelle nella Cattedrale di Parma o nella Basilica di Santa Maria in Trastevere ed altre Chiese doveva veniva eseguito durante la celebrazione ecclesiastica. E’ una lettura musicale teatrale, da grande melodramma sulla solitudine dell’uomo di fronte alla morte, sulla ricerca del significato della vita terrena che ha vissuto e sul dubbio di cosa lo attende. Sul podio, Oren muove la bacchetta (e tutto il corpo) come se recitasse. I quattro solisti sono attorno al podio e cantano immobili, ma i loro volti esprimono dramma e speranza.

Lo si avverte, in primo luogo, dall’introduzione iniziale. L’entrata del coro è in pianissimo, segno del raccoglimento essenziale per comprendere l’opera ed è dopo poco seguita da un Kyrie che ricorda il concertato della scena dell’autodafé nel Don Carlo. Nel Dies Irae siamo nella parte centrale del melodramma che esplode nel Tuba Miru, il dramma diventa teso nel dialogo tra mezzo soprano (Ekaterina Semenchuk) e coro e trova il suo momento centrale nel terzetto (Eleonora Buratto, Ekaterina Semenchuck e Francesco Demuro) Quid sum miser per poi di nuovo guardare con timore all’Alto nel Rex Tremenda-  Nel finale, dopo il Libera me Domine da morte aeternam Eleonora Buratto china il capo ma Oren non abbassata subito la bacchetta. La tiene sospesa per circa un minuto e poi la discende molto lentamente per indurre ad una breve ma intesa fase di meditazione. Il pubblico è, quindi, scoppiato in dieci minuti di ovazioni.

La tradizione operistica di Oren  si avverte nelle sonorità violente quasi terrificanti del Dies Irae (le cui proporzioni sono quasi quelle di un atto di una normale opera verdiana) e dolcissime invece nell’Agnus Dei (segno dell’eterno riposo). L’approccio teatrale è sempre presente. Verdi compone principalmente per il teatro e nella mani di Oren, il Requiem diventa un melodramma sacro. Il coro assume dimensioni di maggior rilievo che in Don Carlos ed Aida: diventa uno dei protagonisti. I quattro solisti, nelle arie, nei duetti, nel grande quartetto, non sono voci da concerto ma personaggi in carne ed ossa di fronte al mistero, ed al timore, della morte ed alla speranza della vita eterna. Sono tutti e quattro di grande spessore. Vorremo ascoltarli a Roma più spesso.