Bisogna sfogliare attentamente i giornali e cogliere qualche voce isolata sulle inutili ricostruzioni televisive, per ricordarsi che 40 anni fa, in Italia, avvenne uno degli atti di ingiustizia da vergognarsi di essere cittadini di questo Paese. Alle 4 di notte del 17 giugno 1983 Enzo Tortora, un popolarissimo uomo di televisione, fu tratto in arresto in un albergo di Roma dai carabinieri e gli fu notificata l’accusa di traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico.
L’immagine di Tortora che viene accompagnato con le manette dai carabinieri fu un insulto a un Paese che, in qualche caso, quando studiavi giurisprudenza (purtroppo codice penale del mussoliniano Alfredo Rocco ancora vigente di fatto) ti veniva illustrato, paradossalmente, come il Paese che “era stata la culla del diritto”. E questo nonostante ci fosse stato il cardinal Carafa, Paolo IV, padre dell’Inquisizione. Ci fossero le leggi contro gli eretici, con stragi annesse. E solo nel Settecento, con Cesare Beccaria e i fratelli Verri, il Paese aveva perlomeno riscoperto una piccola parte dei diritti civili e si incamminava verso la certezza del diritto che inglesi, americani e francesi faticosamente stavano instaurando.
Scusate questa introduzione, ma personalmente non riesco a staccarmi dal nesso tra storia e cultura “figlia” della storia. Quando il caso Tortora fu risolto sul piano giuridico con l’assoluzione piena, il direttore del Corriere della Sera, dove allora lavoravo, per riparare ai danni che alcuni corrispondenti da Napoli e non solo avevano scritto sull’intera vicenda, mi mandò in via Piatti, una traversa di via Torino a Milano, dove abitava Enzo Tortora per intervistarlo e cercare di ricostruire un minimo di rapporto umano con giornalisti che quasi “pregavano” perché fosse riconosciuto colpevole.
La stampa mainstream dell’epoca era un canto di colpevolezza nei confronti di Tortora, il quale, provato e letteralmente massacrato, quando fu riconosciuto totalmente innocente, morì di un cancro ai polmoni per lo stress che aveva subito, mentre il suo implacabile accusatore, il pubblico ministero Diego Marmo, ammise dopo trent’anni di avere sbagliato, ma ammise anche che la sua carriera era stata tutto sommato brillante e senza conseguenze per quell’errore da troglodita del diritto.
È questo che personalmente mi ricordano questi giorni, e avrei desiderato che il guardasigilli Carlo Nordio ricordasse di più o almeno associasse maggiormente alla sua riforma la storia di Tortora, non solo quella di Berlusconi.
Sia chiaro che anche Berlusconi fu massacrato dal binomio stampa-magistratura. Incredibile il racconto di Paolo Mieli sulla “sua” conoscenza preventiva dell’avviso di garanzia che arriva a Berlusconi nel 1994 dopo che una lettera era stata messa in qualche modo a disposizione del Corriere e ancora più incredibile che quando via Solferino fece lo scoop, nessuno degli eroici pm di “Mani pulite” abbia mai sentito o ascoltato Mieli su quell’episodio di pubblicazione esclusiva.
Strano, ma ricco di tristezza, anche il commento lasciato da Massimo D’Alema in una intervista: “Ammetto che Berlusconi avesse ragione a sentirsi perseguitato”.
Ma quello che stupisce, per il momento, in questa vicenda, è che siamo solo all’inizio della riforma della giustizia che Nordio ha in mente. Per alcuni è un inizio tanto soft che uno dei più duri avversari della magistratura, come il direttore de L’Unità Piero Sansonetti, parla di “acqua fresca”.
Ma forse l’esordio in sordina è solamente per saggiare i contrasti che arriveranno quando si stabilirà la separazione delle carriere, a cui il povero Marco Pannella aveva dedicato l’intera sua vita.
Tuttavia, anche questa partenza in sordina, con l’abolizione dell’abuso di ufficio, ha provocato una discreta cagnara. In effetti la prima parte della riforma ha provocato la divisione, per non dire la frammentazione del Pd. Si può dire che l’eliminazione dell’abuso d’ufficio fosse quasi diretto contro l’intransigenza della segreteria di Elly Schlein.
Era evidente che una parte dell’opposizione, quella che fa capo a Renzi e a Calenda, si era già dichiarata pronta a votare le norme garantiste di Nordio.
In questo caso non c’è alcuna novità. Renzi e Calenda l’hanno sempre pensata allo stesso modo. Come ha scritto l’avvocato Caiazza, presidente delle Camere penali, si tratta di “timidi ma inequivocabili passi sulla via di una riforma liberale della giustizia che tuttavia è ancora tutta da scrivere”. Fin qui non c’era certo da stupirsi, se quella parte dell’opposizione al governo si era distaccata dall’opposizione.
Diventa invece piuttosto interessante e problematica la reazione all’interno del Pd. Certo la Schlein è intransigente verso Nordio e vuole un’opposizione senza compromessi, ma come riuscirà a normalizzare i sindaci del Pd proprio sull’abuso di ufficio eliminato? Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e coordinatore del sindaci del Pd, ha detto in termini espliciti che loro sono tutti per accantonare questo reato forse inafferrabile che intasa gli uffici giudiziari e alla fine produce l’1 o 2 per cento di condanne in primo grado. Elisabetta Gualmini, una politologa eletta al Parlamento europeo con il Pd, è stata altrettanto netta: “Sull’abuso di ufficio sono stati i nostri sindaci e la presidenza dell’Anci a chiedere una profonda revisione. Il 98 per cento delle indagini finisce in nulla. Ora che sia stato abolito non può essere contestato da noi. Nessuno ci capirebbe”.
È chiaro che siamo solo all’inizio, ma c’è la sensazione che sui problemi della riforma della giustizia ci sia un atteggiamento trasversale, per cui Nordio potrà senz’altro giocare una sua partita.
Vedremo tema dopo tema come si svolgerà questo confronto tra i partiti sulla giustizia, soprattutto sulla separazione delle carriere. Difficile vedere se si realizzerà una riforma compiuta. Probabilmente si arriverà a una serie di compromessi, ma la scelta di un processo realmente accusatorio e non inquisitorio, della terzietà del giudice, la parità tra accusa e difesa, quindi tra pm e avvocato della difesa, si avvicinerà a nostro parere sempre di più.
Prendiamo appunto uno degli elementi più spinosi, come si preannuncia quello della separazione delle carriere. Vi è da notare che la migliore tradizione giuridica italiana fu garantista, a favore della separazione. Basterebbe ricordare il “socialismo giuridico” di Francesco Saverio Merlino, di Pietro Ellero e dei suoi discepoli: da Giacomo Matteotti, Leonida Bissolati, Filippo Turati fino a Pietro Calamandrei e Giuliano Vassalli. Poi il pensiero cattolico di Francesco Carnelutti, che aveva tra i suoi seguaci anche Aldo Moro. Senza dimenticare comunisti come Umberto Terracini e Gerardo Chiaromonte, per arrivare a un martire come Giovanni Falcone, su cui si dice di tutto, che i suoi colleghi mandarono sotto processo al Csm e lui si batteva fortemente per la separazione delle carriere.
C’è da chiedersi: ma in Gran Bretagna, in Francia, in Usa, in Germania, in Spagna, in Portogallo e in quasi tutti i Paesi democratici dove esiste la separazione delle carriere non c’è giustizia? Spaventa qualcuno il giudice unico? Il processo che dibatte sul fatto senza i giornali che sbattono in prima pagina le avventure che non c’entrano nulla con il processo?
Sarò una battaglia lunga, ma qualche volta c’è la speranza che anche in Italia si realizzi il principio de Montesquieu: in un processo se il giudice e l’accusa fanno lo stesso mestiere ci si trova di fronte a un’anomalia. Chissà se la famosa intellighenzia italiana arriverà a comprendere questa semplice considerazione condivisa da tutti i più grandi giuristi del mondo.
O forse in Italia si preferirà “l’unità e la compattezza della magistratura”, come pontificava il ministro di Mussolini Dino Grandi? O ancora hanno nostalgia di Andrej Januaveric Vysinskji, il grande pm di Stalin? Staremo a vedere.
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