Mentre il Governo porta avanti nuove modifiche al codice di procedura penale, sollevando ancora una volta accese polemiche, altre vicende non meno rilevanti hanno interessato il mondo della giustizia, sebbene in un sostanziale silenzio mediatico. Procediamo con ordine, partendo proprio dalle ultime iniziative del Governo. Attraverso la presentazione di emendamenti al ddl cybersecurity, il Governo ha proposto di introdurre limitazioni all’uso del trojan e il divieto di pubblicazione di atti d’indagine con forti sanzioni per i cronisti. Le polemiche sono subito divampate e fra esse spicca quella mossa dal procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, il quale, nel biasimare il divieto all’uso del trojan per i reati contro la pubblicazione amministrazione, ha evidenziato come esso rappresenterebbe un grande favore a chi di corruzione vive. Il tema è come sempre scivoloso e presenta una forte connotazione politica. Mentre per il precedente provvedimento che ha previsto per i sequestri di smartphone e pc l’autorizzazione del Gip si può condividere il fine di garanzia, pur nella consapevolezza dell’ulteriore dilatazione dei tempi di indagine e di appesantimento del lavoro dei già oberati uffici giudiziari, il proposto emendamento in merito alle limitazioni all’uso del trojan desta una condivisibile perplessità, non fosse altro che per il fatto che la corruzione si nasconde dietro artificiosi meccanismi ed è quindi indispensabile, pur con le dovute garanzie, che si possa contare su tutti gli strumenti a disposizione.
Negli stessi giorni, scarso clamore hanno suscitato le parole del Presidente Mattarella, che innanzi al plenum del CSM, organo costituzionale da troppi anni nella tempesta per la spregiudicatezza delle correnti interne che lo governano, ha ricordato come i suoi componenti non debbano cercare il consenso, essendo essi chiamati ad assicurare la massima credibilità alla magistratura, con decisioni da assumere con senso delle istituzioni, poiché i cittadini chiedono una giustizia trasparente ed efficiente, ribadendo come “la composizione delle diversità non si realizza ricorrendo a logiche di scambio, che assicurano l’interesse di singoli o di gruppi”. Messaggio di grande rilevanza, riecheggiato troppo poco nei circuiti mediatici, che tuttavia, per un gioco del destino, fa il paio con quanto è emerso dal massimario delle decisioni disciplinari emesse, dalla cui lettura viene fuori un quadro caratterizzato da maglie larghissime e discrezionalità molto elevata. Da una rapida lettura della casistica si apprende di assoluzioni disciplinari che lasciano alquanto perplessi, come quelle per un magistrato che esercita l’azione penale per reati non ancora introdotti nell’ordinamento; così come per chi omette di trattare casi a lui assegnati; ovvero per chi ottiene l’assunzione del figlio in uno studio di un professionista dallo stesso nominato amministratore giudiziario; così come per chi ha chiesto di condizionare l’attività di istituti di credito per beneficiare di dilazioni di prestiti.
Le motivazioni addotte per escludere ogni forma di responsabilità disciplinare sono poi le più disparate: si va dalla debilitazione fisica al fatto che il lavoro era complesso e di difficile ricostruzione, dall’inesperienza professionale all’assenza di clamore mediatico; dalla mera disattenzione alla necessità di elaborare un lutto; dalla scarsa lesività del fatto all’assenza di disfunzioni per l’attività giudiziaria o di reclami da parte del soggetto danneggiato. Senza scivolare in populismi e fermo restando il rispetto, anche qui, delle garanzie, è indubitabile che qualcosa non quadri. Al contempo, dalla lettura della relazione al Parlamento del ministero della Giustizia sulle misure cautelari e sull’ingiusta detenzione, emerge, per il 2023, un quadro ancor più desolante. Dal 2018 al 2023 sono state risarcite dallo Stato ben 4.368 persone ingiustamente arrestate, per una somma complessiva di 193.547.821 euro. Di fronte a questi numeri, dal 2017 al 2023 sono state avviate solo 87 azioni disciplinari, di cui 44 decisioni di non doversi procedere, 27 assoluzioni, 8 censure, 1 ammonimento, con 7 di esse ancora in corso. Insomma, come andiamo scrivendo da tempo, i magistrati non pagano mai sul piano disciplinare per i loro errori. Particolare il dato sulle azioni disciplinari su casi di ingiusta detenzione promosse da questo governo: una nel 2022 e tre nel 2023. Il governo giallo verde, tanto per dire, ne aveva avviate 22 nel 2019 e 19 nel 2020.
Gli errori giudiziari in Italia, considerando sia le vittime di ingiusta detenzione sia quelle di errori giudiziari in senso stretto, dal 1991 al 31 dicembre 2023 hanno comportato una spesa complessiva per le finanze statali gigantesca: oltre 960 milioni. Si badi, l’errore fa parte dell’essere umano ed è pertanto inevitabile che esso possa essere commesso da un giudice. Ciò rientra pienamente nella logica del sistema. Basterebbe solo che a pagare fosse anche chi sbaglia e non solo chi dell’errore è vittima.
Infine, sempre in tema di errori e impunità giudiziarie, sta giungendo a sentenza a Caltanisetta il processo di appello per il depistaggio della strage di Borsellino, ovvero la pagina più nera della storia della giustizia italiana. A giudizio ci sono tre poliziotti che insieme all’allora capo della squadra mobile di Palermo, Augusto La Barbera, nel frattempo morto, sono accusati di calunnia aggravata per aver favorito Cosa nostra, perché avrebbero istruito Vincenzo Scarantino a rendere dichiarazioni che sarebbero servite a sviare le indagini sulla strage di via d’Amelio. In primo grado, caduta l’aggravante mafiosa, per due poliziotti è scattata la prescrizione mentre il terzo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”. Per la strage in cui furono fatti saltare in aria Paolo Borsellino e ben cinque agenti di scorta, ci sono stati quattro processi con molte condanne ingiuste poi annullate, e ad oggi molti pezzi di verità ancora mancano in conseguenza di una straordinaria azione di inquinamento delle indagini che ha persino visto la creazione di un falso pentito che a pochi mesi dalla strage, pur essendone completamente estraneo, ha fornito una versione del tutto falsa su esecutori e mandanti, con tanto di sentenze all’ergastolo passate in giudicato. “Non possiamo esimerci dal dire che a questo inquinamento probatorio ha contribuito anche il comportamento di alcuni magistrati, poco attenti, che non sono stati in grado di cogliere elementi di falsità dell’ex collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino. C’è stato anche un tradimento degli uomini dello Stato, che non hanno tradito solo il giudice Paolo Borsellino, ma anche i loro colleghi morti nella strage.
Un tradimento dovuto ad un forte interesse, perché sapevano che con il loro comportamento avrebbero sviato le indagini, vuoi per proteggere pezzi dello Stato, vuoi per coprire mafiosi”. Con queste parole ha concluso la sua requisitoria il pubblico ministero, chiedendo la condanna a pene severe per i tre poliziotti. Che di ciò si parli poco, colpisce enormemente. “I colpevoli – ha affermato la pubblica accusa – non sono solo i tre imputati e il defunto La Barbera; dovremmo avere in aula molti più imputati: in base alle risultanze processuali, ci sono vertici che hanno avuto la fortuna di passare indenni da questa vicenda, ci sono soggetti che sono morti. Si tratta di 25 anni di illeciti gravi e reati, che non si possono giustificare solo con una finalità di carriera di La Barbera”. In sostanza, seconda la pubblica accusa, dopo la strage di via d’Amelio è stata posta in essere un’attività di depistaggio con un ruolo fondamentale di La Barbera e dei suoi principali collaboratori allo scopo di depistare le indagini, per evitare che venissero disvelati i rapporti tra la mafia e apparati dei servizi deviati; il che equivale e dire che in quella strage sono stati coinvolti i servizi segreti, poiché analogo depistaggio non risulta sia stato posto in essere per la strage di Capaci. Cosa differenzia la matrice e le motivazioni dei due eccidi palermitani è questione ancora aperta. Vengono i brividi solo a pensare quale possa essere la verità.
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