Mentre si avvia il cammino parlamentare della legge finanziaria, la giustizia torna a far parlare di sé grazie al discorso programmatico che il neo-ministro Nordio ha inteso illustrare in audizione in commissione al Senato, esplicitando un marcato tratto di discontinuità rispetto ai suoi predecessori.

Suscitando qualche perplessità e l’inevitabile strascico di polemiche, egli ha parlato di separazione delle carriere, riforma del Csm con l’introduzione di una Alta corte disciplinare, ispezioni rigorose sulle intercettazioni. Di certo, dopo le dichiarazioni coeve al suo insediamento in cui aveva palesato la volontà di inserire la sua azione nel solco del progetto di riforma portato avanti dalla ex ministra Cartabia, Nordio, nella prima vera occasione istituzionale, declina ciò che può senz’altro essere considerato il piano più riformista dell’ultimo quarto di secolo, in coerenza con la sua fama di garantista liberale che abbiamo avuto modo di conoscere negli ultimi anni nella veste di editorialista e scrittore di saggi anticonformisti, marcatamente schierato contro “il sistema”.



Provare a formulare una sintetica valutazione di quanto pronunciato non è opera facile con la quale cimentarsi. Assai opportunamente, il suo discorso ha preso le mosse dalla constatazione che in questo momento la priorità assoluta è il superamento della crisi economica, sicché le prime iniziative tenderanno a incidere in questa direzione, attraverso la semplificazione della legislazione e dell’organizzazione giudiziaria, con una complessiva rivisitazione della sua geografia. Poi ci sarà spazio per le riforme più complesse, che riguarderanno anche la Costituzione. Riguardo alla giustizia civile, si procederà nel solco delle riforme del governo Draghi, lavorando per anticipare i tempi per l’adozione dei decreti attuativi.



Ma è sulla riforma del sistema penale che Nordio segna una netta discontinuità. Quando la crisi potrà dirsi alle spalle, occorrerà, ha dichiarato, tanto una riforma del codice penale, adeguandolo al dettato costituzionale, quanto realizzare una completa attuazione del codice Vassalli. Difficile allora non essere d’accordo con il ministro quando afferma che la presunzione di innocenza è stata e continua a essere vulnerata in molti modi: l’uso eccessivo e strumentale delle intercettazioni, la loro oculata selezione con la diffusione pilotata, l’azione penale diventata arbitraria e quasi capricciosa, l’adozione della custodia cautelare come strumento di pressione investigativa, lo snaturamento dell’informazione di garanzia diventata condanna mediatica anticipata e persino strumento di estromissione degli avversari politici.



Sul come intervenire in concreto, il ministro ritiene che in tema di misure cautelari, proprio perché esse teoricamente confliggono con la presunzione di innocenza, la loro adozione non può essere demandata al vaglio di un giudice singolo, risultando più ragionevole spostare la competenza dal gip a una sezione costituita presso la Corte d’Appello, con competenza distrettuale, con l’enorme vantaggio di una maggiore ponderatezza della decisione e anche di omogeneità di indirizzo.

Quanto alle intercettazioni, l’affondo è risultato impietoso. In Italia, ha affermato Nordio, il numero di intercettazioni telefoniche, ambientali, direzionali, telematiche, fino al trojan e un domani ad altri strumenti, è di gran lunga superiore alla media europea, e ancor più rispetto a quello dei Paesi anglosassoni. Il loro costo è elevatissimo, con centinaia di milioni di euro all’anno. Gran parte di queste si fanno sulla base di semplici sospetti, e non concludono nulla. Qui la questione merita un approfondimento.

Il rilievo formulato sul tema dei costi appare sacrosanto; esso sconta, in estrema sintesi, atteggiamenti ambigui con gli operatori telefonici che vanno definiti in modo congruo. Sul numero delle intercettazioni, al netto del dato statistico, di certo l’Italia sconta il triste primato di annoverare radicate organizzazioni criminali, nei cui confronti lo strumento investigativo in questione appare incomprimibile. Quindi non si può non fare i conti con le peculiarità del crimine nostrano rispetto a quello degli altri Paesi europei. Allo stesso modo, occorre ricordare che le riforme risalenti al ministro Orlando hanno molto contenuto il degradante fenomeno della indebita diffusione delle intercettazioni che hanno contraddistinto molte indagini degli anni 90 e del primo decennio del nuovo secolo. Tuttavia, appare giusto evidenziare, rispetto alle feroci critiche che si sono subito levate, che Nordio non ha affatto inteso dichiarare di volere ridurre le intercettazioni sic et simpliciter; sembra piuttosto che egli abbia, correttamente, voluto ricordare come esse siano strumento di ricerca della prova e non mezzi di prova.

Sul ruolo del pubblico ministero, l’intervento del ministro, ex di lungo corso, ha segnato i maggiori tratti di discontinuità. Egli ha infatti ricordato come nell’ordinamento anglosassone, dal quale abbiamo mutuato il modello accusatorio, la discrezionalità dell’azione penale è vincolata a criteri oggettivi, mentre nel nostro Paese l’obbligatorietà è stata mantenuta anche con il nuovo codice ma si è nei fatti convertita in un intollerabile arbitrio, come ben conosce chiunque abbia la sventura di frequentare i nostri palazzi di giustizia.

Corrisponde al vero l’affermazione formulata dal ministro che si è venuto a creare un sistema in cui il pm può trovare spunti per indagare nei confronti di tutti senza dover rispondere a nessuno; sistema che conferisce alle iniziative – e talvolta alle ambizioni – individuali di alcuni magistrati, per fortuna pochi, un’egemonia resa più incisiva dall’assenza di responsabilità in caso di mala gestione. D’altronde, il pm è una parte pubblica a tutti gli effetti, ma è pur sempre una parte. E quindi non ha senso che appartenga in tutto e per tutto al medesimo ordine del giudice, ha affermato Nordio, spalancando così le porte alla tanto discussa separazione delle carriere.

Non potevano anche su questo aspetto essere sollevate grandi obiezioni, in parte fomentate da una certa comunicazione che ha subito parlato di attacco alla magistratura. In realtà, Nordio non ha fatto altro che ripetere concetti che ha già espresso con chiarezza in passato; concetti che si ispirano alla forte convinzione, evidentemente condivisibile, che la giurisdizione debba essere considerato un tavolo a tre gambe, che non riguarda soltanto il giudice e il pubblico ministero, ma anche l’avvocato.

Volendo lanciare una provocazione, più che separare le carriere, si potrebbe pensare piuttosto di riunirle, tutte e tre, come accade nei Paesi anglosassoni in cui non si entra in magistratura per concorso e poi si sceglie se fare il pubblico ministero o il giudicante ma si diventa giudice per nomina dopo aver ricoperto il ruolo di avvocato dell’accusa o della difesa, figure fra loro fungibili. In ogni caso, ciò a cui bisogna puntare è sistema in cui vi sia pari dignità tra avvocatura, magistratura requirente e magistratura giudicante. Ha francamente ragione il ministro a sottolineare, come più volte fatto in passato, che il modello accusatorio o lo prendiamo con tutte le sue caratteristiche o non lo prendiamo. Una volta che noi lo abbiamo introdotto, dobbiamo portarlo fino in fondo, con tutto quello che ne consegue, oppure sarebbe meglio tornare al modello precedente.

Un ulteriore significativo passaggio è stato poi dedicato al giudizio disciplinare. Come spesso scritto da queste colonne, uno dei nodi principali del mal funzionamento del sistema, forse il principale, è proprio la sostanziale assenza di responsabilità dei magistrati, rispetto alla quale il ministro ritiene opportuno procedere in direzione dello spostamento del giudizio disciplinare dal Csm a una Corte terza, non elettiva e individuata con criteri oggettivi, per esempio tra ex presidenti della Cassazione o di alte giurisdizioni o ex giudici della Consulta, nominati dal Capo dello Stato. Proposta che non può che essere sostenuta con forza.

Altro capitolo delicato toccato dal ministro è stato infine quello relativo alla certezza della pena, che dev’essere certa, rapida e soprattutto proporzionata al crimine commesso; tuttavia, certezza e rapidità della pena non significano sempre e solo carcere, con ciò seguendo lo spirito della riforma Cartabia, non esattamente in linea con le idee da sempre propugnate dal partito della premier Meloni.

In estrema sintesi, Nordio non ha fatto altro che confermare le sue idee già note alla maggior parte degli addetti ai lavori, con l’aggiunta del sigillo che ora sono state enunciate in veste di ministro in carica. Piuttosto appare spontaneo porsi la domanda se le misure indicate siano bastevoli a risolvere la complessità dei nodi che affliggono il sistema giustizia, ovvero una realtà complessa che ci sembra di poter dire sia stata, forse, per un verso troppo semplificata dalle parole di Nordio ma ancor di più dalle critiche che gli si sono mosse.

Certo, per realizzare quanto indicato dal ministro i tempi saranno lunghi, ma siamo sicuri che non sfugga alla sua conoscenza che nel frattempo la macchina giustizia continuerà a girare a vuoto, con processi infiniti, testimoni citati più e più volte a vuoto, strutture spesso fatiscenti e cronica mancanza di mezzi e risorse umane. La concretezza dei problemi della giustizia richiede interventi immediati e non anni di attese. Se la direzione sembra quella giusta, il malato resta in stato terminale e anche solo tenerlo in vita è la vera scommessa e al contempo un obiettivo non rinunciabile per uno stato di diritto.

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