Se tutti sono colpevoli, vuol dire che nessuno lo è. Questo modo di pensare, che alberga in una parte consistente della nostra comunità, è una delle principali cause fondanti del processo di deresponsabilizzazione progressiva cui stiamo assistendo, impotenti, da anni.

Deresponsabilizzazione delle famiglie, delle istituzioni, della scuola, della cosiddetta “rete sociale”, implosa sotto i colpi dell’individualismo e del narcisismo che caratterizzano il vivere moderno. A Pomigliano d’Arco due minorenni hanno ucciso senza pietà un clochard, Akwasi Adofo Frederick. Lo hanno fatto per divertimento. Per postare un video in quel teatro degli orrori umani che sono diventate le piattaforme social. Frederick era una persona che non dava fastidio a nessuno, che viveva in condizioni di estrema povertà. I suoi pochi amici lo hanno raccontato come un ragazzo sempre sorridente nonostante le difficoltà: “Non ha mai fatto casini, mai avuto problemi con nessuno” hanno testimoniato a chi chiedeva loro un ricordo. Il suo destino ha incrociato quello di due ragazzini che, dopo averlo avvicinato con una scusa, non hanno esitato a ucciderlo di botte. I video che hanno immortalato quei drammatici momenti sono terrificanti.



Di fronte a questo scempio abbiamo, sì, il dovere di interrogarci su quali valori abbiano questi due ragazzi; in quale contesto familiare e sociale siano cresciuti; chi sono i loro punti di riferimento. Ma non è in alcun modo possibile mettere sullo stesso piano la vittima e i suoi carnefici. Perché se è vero che tutti i protagonisti di questa storia rappresentano il prodotto di un modello sociale ed economico profondamente iniquo, ingiusto, immorale, è anche vero che gli stessi hanno operato scelte profondamente diverse. A parità di difficoltà, di rabbia, di frustrazione per una vita che non ha regalato le stesse opportunità di tanti altri, Frederick ha scelto di vivere, anzi di sopravvivere ai margini ma rispettando i valori della vita e della legalità. Gli altri hanno scelto di uccidere, senza motivo e senza pietà. E dalle scelte che ognuno di noi opera nella quotidianità derivano le responsabilità che tutti abbiamo, nei confronti di noi stessi e degli altri. Questa è la base per la costruzione di una comunità civile.



Da sempre io mi batto a difesa della legalità e contro la violenza e l’arroganza della camorra, dei clan, delle baby gang. Lo faccio mettendoci la faccia, scendendo per strada a parlare con i cittadini che subiscono i comportamenti criminali e a scontrarmi con chi pensa di poter fare ciò che vuole impunemente. Con grande amarezza riscontro che, di fronte a episodi drammatici, il dibattito nell’opinione pubblica e nei media si concentri sempre sui carnefici e molto raramente sulle vittime. Si analizzano sempre le cause e sempre troppo poco gli effetti delle condotte criminali. Lo ritengo un errore. Perché se è vero che la priorità deve essere quella di recuperare e riabilitare le persone che hanno sbagliato, cosa sacrosanta e inoppugnabile, è altrettanto vero che non può esistere riabilitazione senza aver scontato la giusta pena.



Non può esistere il perdono senza un ravvedimento reale e profondo per ciò che si è commesso. Pensiamo bene alle parole pronunciate dagli avvocati dei due ragazzi i quali sostengono che non sia giusto che stiano in carcere, “dovrebbero essere affidati a una comunità perché provengono da famiglie perbene”. Trovo orribile anche questo ragionamento che prova pedestremente ad alleviare il carico della colpa e a deresponsabilizzare gli autori di un efferato omicidio. Ognuno di noi, di fronte agli episodi che accadono nell’arco della propria vita, può scegliere da che parte stare. Può scegliere tra il bene e il male. Consapevole, però, che ne paga le conseguenze.

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