Nel dramma del Covid che vive ancora l’Italia e nelle conseguenze economiche che si attendono, soprattutto nei suoi riflessi occupazionali, sembra che il Paese abbia voglia di mettere a posto tutti i conti con il suo passato, anche quelli che quasi si erano, almeno a livello di opinione pubblica, dimenticati.

Ci si chiede quale significato abbia l’azione del governo di Mario Draghi e l’impegno del guardasigilli Marta Cartabia nel richiedere l’estradizione per i terroristi italiani che hanno vissuto tranquillamente in Francia per quasi quarant’anni.



A chi studiava e viveva in quegli anni, che furono in seguito chiamati “anni di piombo”, quel periodo è sempre sembrata una storia incompiuta, come tanti altri fatti tragici e misteri italiani. Quindi richiedere ai francesi l’estradizione di assassini, che si sono sempre spacciati per “ribelli” che si battevano per un “mondo migliore” era un fatto doveroso.



Ma mentre si è messa in moto la complessa “macchina” che dovrebbe portare all’estradizione e al ritorno in Italia, si sono accavallate due domande immediate.

La prima riguarda la lunghezza del periodo che è passato e perché i tanti governi che si sono succeduti in questi anni non hanno insistito con determinazione nonostante la cosiddetta “dottrina Mitterrand”. Il presidente francese concluse il suo mandato nel 1995 e l’anno dopo morì. Esisteva già l’Unione Europea.

È probabile che in tutti questi anni una determinazione maggiore avrebbe favorito una soluzione, che si è affacciata solo per un breve periodo durante la presidenza di Nicolas Sarkozy. Forse si stava già adottando la “terapia dell’oblio”, che salvava molte contraddizioni di intellettuali e personaggi di spicco della società italiana di quel controverso1968, che, secondo la definizione di Marco Boato (che non condividiamo del tutto), avrebbe favorito una “parte creativa” e una “parte che aveva scelto l’uso della P38”, quella che poi ha vinto.



La seconda domanda che viene in mente è quale tipo di pena si potrebbe adottare in uno stato democratico dopo quarant’anni di latitanza. Nonostante tutte le anomalie italiane, la pena, per la nostra Costituzione, non si basa sul linguaggio “populistico” della certezza, confondendo questa con quella sacrosanta del diritto, ma la punizione, la limitazione della libertà è collegata anche al recupero del condannato.

Come comportarsi adesso dopo quarant’anni con persone che hanno un’età tra i settanta e gli ottanta anni? In più, il problema non si presenta semplice, perché i tempi di estradizione dureranno due o tre anni.

L’operazione potrebbe anche avere due risvolti positivi. Il primo è una sorta di “ripulitura” internazionale dell’Italia, onorando una riforma della giustizia, sia quella civile sia quella penale, che l’Unione Europea ci chiede di attuare prima della fine di quest’anno. L’ altro risvolto positivo del ritorno di simili personaggi (si pensi al killer di Luigi Calabresi, il 77enne Giorgio Pietrostefani) potrebbe portare a una verità migliore rispetto a quello che accadde negli “anni di piombo”, ma anche all’esercito dei supporters, dei simpatizzanti, di chi, sotto sotto, stentava a paragonare il terrorismo rosso e a quello dell’altra ala terroristica, quella nera e fascista.

Ma diciamo subito che nutriamo scarsa fiducia, nonostante la determinazione di Draghi e Cartabia, su dei risultati che ridiano la memoria a un Paese notoriamente “smemorato” come l’Italia e anche un po’ figlio dell’ipocrisia. Ha fatto impressione ai cultori della memoria, ad esempio, il secco giudizio di Mario Draghi nell’anniversario del 25 aprile, quando ha detto che “non tutti gli italiani in quel periodo si comportarono da brava gente”.

Per quanto riguarda la riforma della giustizia, dopo essere stati dei brillanti “tagliatori” della prescrizione, si sta parlando di tutto solo sottovoce, sul piano mediatico, e naturalmente non mettendo in conto la separazione delle carriere (anche perché attualmente in Parlamento non ci sarebbe la maggioranza per una simile riforma) e non si pensa affatto a rivedere la funzione del Consiglio superiore della magistratura, mantenendo così, unici nel mondo democratico occidentale, il giudice e il pm che fanno lo stesso mestiere e un organismo dove i magistrati vengono giudicati dai magistrati stessi.

Forse Jean-Jacques Rousseau, padre dei giacobini, sarebbe contento, ma un ispiratore della divisione dei poteri e della democrazia moderna come Charles Louis de Secondat barone di Montesquieu ripeterebbe inesorabilmente che se il giudice e la pubblica accusa, in un processo, fanno lo stesso lavoro, ci si troverebbe di fronte a un abuso.

È invece così sedimentato nelle teste dell’Associazione nazionale dei magistrati e in tanti accaniti inquisitori italiani il pensiero del guardasigilli Alfredo Rocco e del ministro mussoliniano Dino Grandi, che difficilmente vedremmo realizzarsi l’idea e la battaglia di un uomo come Giovanni Falcone: appunto la separazione delle carriere e la discussione nel processo delle prove raccolte con il principio della presunzione d’innocenza per l’imputato.

Naturalmente si può anche aggiungere che, mentre si discute della riforma del processo penale e della struttura gerarchica della magistratura penale, gira il libro-confessione-rivelazione dell’ex Presidente dell’Anm Luca Palamara, di cui i media italiani informatissimi evitano accuratamente di parlare e inoltre si accumulano scandali in varie procure giorno dopo giorno.

Se la politica riguadagnasse il suo ruolo forse la magistratura ritornerebbe un ordine come deve essere. Ma dubitiamo che avvenga una riforma, perché la si è sempre stoppata anche in altri tempi. Chi non ricorda l’implacabile pubblico ministero del processo Tortora, Diego Marmo, che dopo essere promosso in Cassazione ha chiesto scusa dopo trenta anni per il suo errore? E che cosa ha pagato?

Si parlava poi della ricostruzione che gli “espatriati” all’ombra dell’Iperion diretto a Parigi da Corrado Simioni, potrebbero fare. Ma che cosa dovrebbero confessare oltre ai delitti? Il Sessantotto italiano è durato dieci anni, un record mondiale. Ha portato la confusione che si vedeva sin dai primi vagiti quando dai cortei veniva scandito: “Viva Lenin, via Mao, viva Ho Chi Min. Viva il compagno Giuseppe Stalin terrore dei borghesi”. Come si può notare un contributo essenziale di demenza per la democrazia rappresentativa.

In quello stesso periodo il segretario del Pci, Luigi Longo, ricevendo alcuni studenti li battezzava “socialisti” e nello stesso tempo scriveva un libro dal titolo La resistenza tradita. Il che faceva pensare a un giovane come Alberto Franceschini che aveva avuto ragione suo nonno a consegnargli la pistola che non aveva restituito dopo la Liberazione e che lo scopo della guerra partigiana, che sarebbe stata fatta solo dai comunisti, era una rivoluzione proletaria.

C’erano giornalisti famosi che hanno per cinque anni scritto “le cosiddette brigate rosse”, perché c’era in tutto “l’ombra dei servizi”. Prima della confessione di un appartenente a Lotta continua, l’omicidio di Calabresi era stato attribuito al fascista Gianni Nardi. Ma questi sono quasi dettagli, perché nell’omicidio Calabresi occorre ricordare gli insulti che il commissario riceveva quando andava in tribunale e le firme degli intellettuali italiani che lo condannavano per le indagini su piazza Fontana e sulla morte di Pinelli.

C’era un plotone di intellettuali francesi e di intellettuali italiani che non solo avevano sposato il sessantottismo, ma anche la parte, per dirla con Boato, che aveva sposato la P38, o comunque che difendeva questi “ribelli”.

Come ricostruire un contesto credibile andando a prendere tutto quello che è stato scritto e detto in quegli anni?

Non è una novità per l’Italia. Nelle università, per gli studi sul fascismo veniva contestato Renzo De Felice, che solo il comunista Giorgio Amendola difendeva per la puntuale ricostruzione del periodo più cupo dell’Italia del Novecento.

Sarebbe interessante sapere se i giovani studenti di oggi sanno chi era il presidente del Comitato di liberazione nazionale fino al 29 aprile 1945. Si chiamava Alfredo Pizzoni e non aveva un partito. Nel giorno della Liberazione non è mai stato ricordato e forse solo pochi hanno messo un fiore dove è sepolto.

Questa è l’Italia che si dimentica sempre le cose più importanti, malgrado gli sforzi per avere un minimo di credibilità. L’impressione è che avverrà la stessa cosa anche con l’estradizione dei terroristi difesi da intellettuali francesi e italiani nonostante la determinazione di Draghi e Cartabia. 

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