Chissà se è stata commentata, nei Paesi democratici occidentali, la dichiarazione del presidente dell’Anm (Associazione nazionale magistrati), Giuseppe Santalucia, sulla separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero, cioè tra chi giudica e chi svolge il ruolo dell’accusa, in termini esatti tra giudicante e requirente.
Santalucia in una relazione del 13 luglio ha sostenuto che la separazione delle carriere “è un pericolo per la democrazia”. Nei Paesi democratici occidentali, dove la separazione delle carriere è una normalità e un fattore di distinzione di uno Stato democratico, sopratutto nei Paesi anglosassoni, probabilmente la dichiarazione del presidente della nostra Anm non è stata neppure presa in considerazione, considerando lo stato della giustizia italiana e ritenendo che Giuseppe Santalucia non si distingue certo per essere il nuovo “Hans Kelsen” del terzo millennio.
Tuttavia quella dichiarazione alza il velo sulla storia della magistratura e della giustizia in Italia, sulla nostra cultura giuridica prevalente, sulle contraddizioni che persino l’Assemblea costituente non riuscì a risolvere nel varare la Carta costituzionale, per diversi motivi, che andavano dalla cultura dei magistrati e degli accademici (tra questi ultimi furono in 11 a non giurare fedeltà al fascismo) e all’incompatibilità che per anni si è trascinata tra il processo inquisitorio, caratterizzato dal codice penale e di procedura penale del ministro mussoliniano Alfredo Rocco, e la faticosa necessità di una riforma in senso non solo garantista, ma democratica, che si basa soprattutto sulla separazione tra chi giudica e chi svolge il ruolo dell’accusa in un processo. In più non va dimenticato che un pizzico di Yalta esisteva anche nella Costituente e molti temevano che un Pm sottoposto al potere del guardasigilli avrebbe potuto creare sfracelli.
Ma detto questo, si può spiegare l’anomalia italiana (perché di questo si tratta) cominciando dalla comparazione con gli altri ordinamenti democratici.
Si può cominciare con il VI emendamento della Costituzione americana, che riconosce il diritto al contraddittorio dell’accusato. Ma non restiamo agli States, che a molti non piacciono, e vediamo i grandi principi internazionali: come l’articolo 10 della Dichiarazione universale dei diritti umani, dove si sancisce che il processo si debba svolgere in posizione di piena uguaglianza (10 dicembre 1948); e poi la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che all’articolo 6, rubricato “Diritto a un equo processo”, dispone che “ogni accusato ha diritto di esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico”. La Convenzione è entrata in vigore il 3 settembre 1953.
Ma la giustizia italiana, in quei tempi, “marciava” secondo i criteri principali del Codice Rocco e il giudice e il pm erano seduti sullo stesso bancone davanti all’aula, mentre la difesa, stava in un banchetto sottostante. Ci vollero anni perché il Pm scendesse dal “balcone”.
È inevitabile che quando si arriverà al cuore della riforma della giustizia si toccherà la separazione delle carriere e lo scontro diventerà durissimo, perché, a ben guardare, su questo punto si può dire, sulla base dell’esperienza e della storia, che in Italia c’è, a seconda delle convenienze, una destra “semigarantista” e una sinistra “giustizialista” e “semigiustizialista”.
Poi, certamente, esiste una tradizione riformista di sinistra (quella vera, non di discendenza brezneviana), liberale, liberalsocialista, laica, radicale e persino cattolica, che si è sempre battuta per il processo “giusto ed equo” ottenendo però risultati faticosi e quasi sempre non rispettati. Perché nel Belpaese è sempre stata minoranza di fronte alla demagogia della giustizia come vendetta e al populismo giuridico dilagante esaltato dal fascismo.
Negli anni Sessanta del Novecento cominciò una vera battaglia per una riforma con Francesco Carnelutti, grande giurista cattolico, che pose il problema del giusto processo. Negli anni Settanta ci provarono poi, tra molti altri, due grandi giuristi come Gian Domenico Pisapia e Giovanni Conso.
In fondo, tutti questi giuristi si collegavano, anche con visioni culturali differenti, alla tradizione prefascista della scuola di Francesco Saverio Merlino che divenne un punto di riferimento per uomini come Filippo Turati, Giacomo Matteotti e Leonida Bissolati. E sui problemi della giustizia si possono ricordare anche comunisti come Umberto Terracini, Aldo Rizzo e Gerardo Chiaromonte.
Erano tutti uomini sensibili verso i diritti umani e verso il “giusto processo” che alla fine degli anni Ottanta entrò solo “in punta di piedi” anche nella aule di giustizia italiane, provocando però la reazione dei pubblici ministeri, che da corporazione si trasformarono in un “partito dei pm”, oggi ben rappresentato dal presidente dell’Anm, ma anche in un partito mediatico dei “pm pensionati”, che ogni giorno scrivono sui giornali amici provocando risate culturali, ma anche il sapore amaro di posizioni anacronistiche, da “ancien régime” che hanno provocato drammi umani.
Alla faccia della Dichiarazione dei diritti umani del 1948 e della Convenzione europea del 1953, la Costituzione italiana introdusse il giusto processo, correggendo l’articolo 111, solo nel novembre del 1999 (bisognava pensarci bene!) , dove finalmente si prevede: “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a un giudice certo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. Citiamo solo un altro comma per rassicurare coloro che sono preoccupati del “pericolo per la democrazia”: “Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore”.
E proprio il giudice unico è la premessa della separazione delle carriere. Bisognerebbe leggerlo tutto, sempre, l’articolo 111, per comprendere come si è passati, in teoria, dal processo inquisitorio al processo accusatorio. Merito anche di un socialista, eroe della Resistenza, come Giuliano Vassalli.
Ma, come spiega nel suo splendido libro Giuseppe Benedetto Non diamoci del tu. La separazione delle carriere, i meccanismi di “evasione” dal testo dell’articolo 111 (che prevede di fatto il giudice unico, evocando una sorta di triangolo isoscele dove al vertice c’è chi giudica e alla base ci sono difesa e accusa, sullo stesso piano) sono favoriti da contraddizioni antiche e da una cultura che sembra non voler morire mai.
A volte non si vorrebbe credere alle parole e agli scritti lasciati nella sua monumentale opera sul fascismo da Renzo De Felice, quando spiegava che tra i lasciti della tragedia fascista in Italia è rimasta anche una mentalità sbagliata. Un modo di dire che spiegava in toni meno spietati la definizione di Ennio Flaiano: in Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti. Speriamo che non sia proprio così. Ma bisognerebbe stare attenti a dire che il “rischio democratico”, in base alle separazione delle carriere, esiste nei Paesi anglosassoni di antica democrazia, ma anche nell’Europa continentale, anche in Francia (nonostante alcuni salti mortali dialettici messi in atto dagli scritti dei nostri pm), anche in Spagna e persino in Portogallo dopo la caduta del regime di Salazar e la “rivoluzione dei garofani” che instaurò la democrazia anche in quel Paese.
È per lo meno imbarazzante che l’unità delle carriere unisca una parte della magistratura italiana, come ai tempi del ministro Dino Grandi, di Alfredo Rocco, di Benito Mussolini e di Vittorio Emanuele III.
Eppure c’è chi sostiene che la battaglia sarà durissima e il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sarà attaccato all’interno della sua maggioranza e da grandissima parte dell’opposizione, “pentastellati” in testa, tutti novelli giuristi di “grande capacità” che farebbero inorridire Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, conosciuto (forse) da Conte e i suoi amici come Montesquieu.
Teorico indiscusso della separazione dei poteri, Montesquieu scrisse nel suo L’esprit des lois anche sul processo, sostenendo che se “il giudice fa lo stesso mestiere dell’accusatore, ci si trova di fronte a un’anomalia”.
Tutte bazzecole per alcuni, come ad esempio per il politologo e indipendente di sinistra Gianfranco Pasquino, che ha sostenuto, sicuro, in una trasmissione televisiva, che la separazione delle carriere non si realizzerà, “anche se si farà la riforma della giustizia”. Sperando che sia solo uno wishful thinking, riprendiamo due dichiarazioni più cariche di speranza riportate nel libro di Giuseppe Benedetto.
La prima è di Giuliano Vassalli: occorre mettere in rilievo le contraddizioni dell’ordinamento giudiziario. In cui il pubblico ministero è equiparato in tutto al giudice, esercita l’azione penale in modo obbligatorio e non risponde a nessuno della propria attività. In questo contesto di assoluta anomalia è difficile pensare a una piena attuazione del modello accusatorio.
Ma non solo i giuristi e i politici dedicavano la loro attività e il loro pensiero alla riforma della giustizia. C’erano gli eroi, quelli veri, della magistratura che facevano e dichiaravano ancora più esplicitamente il loro pensiero.
Giuseppe Ayala è stato anche un magistrato che aveva come amici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e ricorda in un libro la posizione unitaria di tutti e tre per una riforma della giustizia che prevedeva la separazione delle carriere. C’è qualche pm pensionato che ha messo in dubbio pure questo, rifacendosi a dichiarazioni del cognato di Falcone, sostenendo che Giovanni voleva solo la distinzioni delle funzioni.
Per aiutare qualche smemorato, ricordiamo un’intervista a Repubblica di Falcone del 3 ottobre 1991: “Il pm non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non deve essere, come invece oggi è, una specie di paragiudice. Chi, come me richiede che [giudice e pm] siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di mettere il pm sotto il controllo dell’Esecutivo”.
Sperando che il giornale non sia scomparso, si può dire che Falcone anticipava le battaglie del futuro già nel 1991. Chissà che non fosse anche questo un motivo per cui Falcone non era benvoluto, amato e popolare alla Procura di Palermo e fu mandato davanti al Csm. C’è persino chi disse che il famoso attentato all’Addaura l’avesse personalmente sceneggiato lui.
Borsellino si limitava a dire che la procura di Palermo “era un nido di vipere”. Non sarebbe il caso di stabilire il perché, storicamente s’intende, di questa animosità di fronte a questi due eroi che combatterono la mafia fino a esserne uccisi?
Di certo Leonardo Sciascia, quando si riferiva ai “professionisti dell’antimafia”, in modo sarcastico non si riferiva certamente a loro. E varrebbe la pena di ricordare una lezione di Sciascia sul ruolo del giudice: “Per quanto possa apparire paradossale, la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio”. La vendetta era un sentimento che il grande scrittore non conosceva.
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