Lunedì si è celebrato lo sciopero dei magistrati contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, che ha registrato un’adesione assai bassa. Ne abbiamo chiesto conto a Maria Luisa Miranda, già pm alla Dda di Reggio Calabria, ora gip al tribunale di Napoli, firmataria di ordinanze cautelari di estrema delicatezza fra cui quella relativa al clan di Sant’Antimo che ha riguardato anche i fratelli Cesaro e quella relativa al clan Moccia, potente cosca con importanti ramificazioni imprenditoriali. “Prima di tutto non trovo che una adesione pari al 48% dei magistrati possa definirsi ‘scarsa’ – dice Miranda al Sussidiario –, forse non è il risultato che sperava chi, come me, ha aderito con convinzione, ma non ritengo si possa parlare di un flop, come in molti cercano di far credere.
Parliamo comunque della metà dei magistrati. Certo non c’è stata la stessa adesione del 2010, che fu dell’85%, ma la magistratura è cambiata, molti colleghi sono sfiduciati, molti hanno ritenuto di prendere in questo modo posizione contro l’Anm e molti non hanno percepito le vere criticità di questa proposta di riforma. Quest’ultima, a mio parere, è la vera sconfitta. Non essere riusciti al nostro interno a far comprendere, in maniera chiara, la gravità di alcune modifiche e la necessità di opporsi tutti uniti e compatti”.
Dottoressa, mi colpisce la sua affermazione sulla circostanza che molti dei suoi colleghi hanno voluto prendere posizione contro l’Anm.
Molti magistrati contestano un atteggiamento troppo tiepido da parte dell’Anm, in queste come in altre situazioni. Contestano la circostanza di non aver sempre preso posizioni a tutela di alcuni colleghi o anche di avere votato a favore dello sciopero solo in visione delle prossime elezioni del Csm.
Lei che cosa ha fatto?
Io per prima non ho votato alle ultime elezioni per il rinnovo dell’Anm, proprio perché non ho condiviso alcune scelte, ma ho l’onestà intellettuale per ammettere che in questo momento la scelta dell’Anm andava difesa ed appoggiata a tutela della magistratura e della società. Ci sono valori superiori da difendere.
Entriamo nel dettaglio. Partiamo dalla lamentata separazione “di fatto” delle carriere.
Sì, questa è una delle più gravi. Già ora il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente, e viceversa, è molto difficoltoso, ma almeno lo si può fare, pur cambiando regione, quattro volte nel corso della carriera. Su questo assetto, il disegno di legge, come lei ha più volte illustrato da queste pagine, prevede che il magistrato possa chiedere il cambio delle funzioni una volta nel corso della carriera. Inoltre, con una limitazione veramente incomprensibile, lo può fare entro 9 anni dalla prima assegnazione delle funzioni, per una sola volta e solo se si tratta del passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti purché l’interessato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali, oltre ad altri bizzarri distinguo.
Quindi?
Praticamente chi svolge funzioni penali non può optare per il passaggio di funzioni, mentre chi fino al giorno prima si è occupato di contratti bancari o di separazioni e divorzi sì. Parliamo di una misura francamente insensata. Ergo, il senso può essere solo uno: “istituire” di fatto una separazione delle carriere, anche se la Costituzione non lo consente. Significa attuare di fatto una riforma costituzionale, senza però seguire l’iter previsto per la modifica di norma di rango costituzionale.
Anche molti suoi colleghi sostengono che sul punto si è fatto tanto rumore per nulla, perché nella realtà dei fatti sono pochissimi i magistrati che cambiano le funzioni.
Guardi professore, tra tutte le motivazioni che ho sentito da parte di chi non ha aderito allo sciopero questa è quello che trovo più imbarazzante. Prima di tutto un magistrato non può accettare che si arrivi ad una modifica di una norma di rango costituzionale attraverso un meccanismo che non è quello suo proprio. Ma poi non è rilevante che incida “pochissimo”: se anche un solo magistrato volesse cambiare funzioni glielo si deve consentire, perché questo è quello che prevede la Costituzione. Ma a questo punto faccio io la stessa domanda al contrario. Ma se incideva così poco, perché prevedere questa ulteriore limitazione?
E cosa risponde?
Credo sia necessaria una spiegazione, perché una limitazione di questo genere non solo non comporta alcun vantaggio, né in termini di efficienza, né in termini di produttività, ma soprattutto mortifica quello che “sulla carta” dovrebbe essere uno degli obiettivi della riforma dell’ordinamento giudiziario, ovvero quello di migliorare la qualità del lavoro giudiziario.
Altro punto nodale è quello dell’organizzazione delle procure.
Esatto. Anche su questo aspetto si è cercato di minimizzare quanto andranno ad incidere alcune modifiche, come quella che prevede che il progetto organizzativo delle procure debba essere adottato sentiti il dirigente dell’ufficio giudicante corrispondente e il presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati, e che verrà approvato dal Csm, previo parere del consiglio giudiziario e valutate le eventuali osservazioni formulate dal ministro della Giustizia. Nella migliore delle ipotesi ci sarà un tale rallentamento per il passaggio delle carte che i progetti organizzativi verranno adottati alla scadenza del quadriennio e si andrà avanti con circolari urgenti direttamente esecutive. Queste sono modifiche che non vanno corrette, vanno cancellate.
Molto clamore suscita anche l’introduzione delle pagelle. Lei ritiene che sia così sbagliato introdurre un meccanismo di valutazione sulla capacità, ad esempio, dei Pm di imbastire indagini che non arrivino al sistematico naufragio in sede di giudizio, come troppo spesso è accaduto in passato, nonostante enormi costi sostenuti e inutili sofferenze inferte?
Professore, conosco la sua posizione a favore di tale misura e mi spiace doverle esprimere il mio assoluto dissenso. Essa in nessun modo andrebbe ad incidere sulle patologie da lei descritte che, peraltro, mi sembra quanto meno ingeneroso definire come sistematiche, perché nella realtà dei fatti non è assolutamente così. Già ora è possibile segnalare situazioni patologiche, anzi in determinati casi, vi è un obbligo del capo dell’Ufficio. Sono assolutamente convinta che con un sistema del genere non ci sarà alcun miglioramento in termini di produttività o di qualità del lavoro. Se a questo poi si aggiungono le modifiche apportate in materia di illeciti disciplinari (almeno nelle parti che si comprendono perché alcuni interventi sono veramente poco chiari) il risultato sarà che le prossime generazioni di magistrati saranno composte da burocrati la cui preoccupazione principale non sarà certamente quella di rendere un servizio alla collettività e di fare Giustizia.
Valutazione e responsabilità dei magistrati sono temi che ci portano alla questione della degenerazione correntizia. Lei creda che la politica riuscirà ad archiviare la stagione dello strapotere delle correnti che vede nella parte migliore della magistratura la principale vittima?
Non certo con questa riforma. L’unica strada percorribile era quella del sorteggio temperato, cosa che avrebbe evitato bocciature di costituzionalità, ma evidentemente erano altri gli obiettivi.
La sensazione diffusa nell’opinione pubblica è che la magistratura non sia stata in grado di voltare veramente pagina rispetto agli scandali scoppiati con la vicenda Palamara.
Forse su questa considerazione possiamo convenire, ma resta fermo il fatto che questa riforma non solo non consente di voltare pagina, visto che non incide in alcun modo sul “sistema delle correnti”, ma soprattutto colpisce indistintamente anche la parte sana della magistratura, che con il “sistema” non ha nulla a che vedere e che questo atteggiamento proprio non se lo merita.
Colpisce che questa riforma sembri non accontentare nessuno. Lei non salva niente di quanto è ora in discussione al Senato?
È tutto veramente inconcepibile e preoccupante. Si parla di difesa del principio dell’autonomia, indipendenza e terzietà della magistratura, e poi si introduce un sistema di controllo “esterno” sul lavoro dei magistrati nelle valutazioni di professionalità che intacca in maniera evidente questo principio; si dice che si vuole raggiungere una cultura della giurisdizione e si vieta ai giudici di diventare Pm, quando è l’unico modo per raggiungere la tanto ambita cultura della giurisdizione del Pm; si dice che si vuole premiare i tanti magistrati che in silenzio lavorano, ma poi si introduce un meccanismo per cui si è sempre sotto esame e che viene vissuto solo come una ritorsione. Qualcosa forse la si può anche salvare, ma è inaccettabile il metodo.
A che cosa si riferisce?
Non si può pensare di riformare il “nostro” ordinamento, dando voce e parola all’avvocatura, all’accademia, ai politici, ma non ai magistrati che praticamente non sono stati ascoltati. Con buona pace di qualche collega al ministero.
(Antonio Pagliano)