Con il voto unanime di FdI, Lega e Forza Italia e con il sostegno di Italia Viva, la Commissione Giustizia al Senato ha approvato, come primo atto dopo la ripresa dell’esame degli emendamenti al ddl Nordio, l’abolizione del reato di abuso d’ufficio. La scelta politica della maggioranza, che va nella direzione contraria dei timori espressi dalla minoranza parlamentare oltre che dalla magistratura e da qualificati ambienti della Commissione europea, è stata ispirata dalla convinzione che l’impatto concreto di tale abolizione sarà assai scarso mentre assai forte sarà quello psicologico a favore degli amministratori locali e ciò in considerazione del dato statistico secondo il quale circa il 92-93% delle inchieste finisce in archiviazioni, proscioglimenti e assoluzioni. Secondo il Governo, pertanto, il reato in parola conserva geneticamente un intollerabile margine di incertezza applicativa nonostante le diverse modifiche apportate negli anni.
Sebbene la scelta del Governo possa essere discussa tanto nel merito quanto soprattutto sul versante delle priorità, restando alto il numero delle criticità che condizionano il funzionamento del sistema giustizia, si deve riconoscere che la prassi giudiziaria, con una enorme mole di inchieste che vengono avviate per essere poi puntualmente ridimensionate in corso d’opera, ha fatto emergere come spesso i pubblici ministeri abbiano confuso l’illecito amministrativo con quello penale, l’illegittimità dell’atto con la sua illiceità. L’ipotizzato difetto nella gestione di una procedura è stato troppo spesso scambiato con indizi del reato di abuso, favorendosi così la costruzione di inchieste che, oltre a finire in una bolla di sapone, durano uno, due o tre anni, condizionando non poco la vita politica dell’amministratore coinvolto, generando inoltre ciò che è stata definita la paura della firma o dell’atto lecito.
Dopo mesi di accuse di immobilismo, si sblocca così il percorso delle riforme della giustizia del governo Meloni e, a completamento del quadro disegnato dal ministro della Giustizia, è arrivato anche l’intervento della Lega sulla legge Severino volto alla eliminazione della parte che prevede la sospensione dalla carica dell’amministratore pubblico in presenza di una sentenza in primo grado sebbene non definitiva. La proposta, inizialmente presentata sotto forma di emendamento, è stata trasformata in ordine del giorno e impegna il Governo a istituire un tavolo di lavoro per il riordino dei reati contro la pubblica amministrazione e un osservatorio che consenta di monitorare gli effetti dell’abolizione del reato di abuso d’ufficio.
È stata infine anche approvata la proposta di tipizzazione del reato di traffico di influenze: per essere punibile, il facilitatore dovrà sfruttare in maniera intenzionale il rapporto – che dovrà essere esistente e non solo ipotetico – con il pubblico ufficiale; l’utilità dovrà essere economica e i soldi dovranno arrivare materialmente in mano al pubblico ufficiale in relazione all’esercizio della sua funzione, venendo quindi elevata la soglia di punibilità, sicché non basterà più pagare il facilitatore, ma occorrerà la prova che il denaro sia arrivato nella mani dell’utilizzatore finale.
Come noto, il ministro Nordio è stato costretto a sdrammatizzare le critiche formulate dalla Commissione europea attraverso il suo portavoce, affermando che l’Europa non ha mai formalmente chiesto di reintrodurre il reato di abuso d’ufficio, chiedendo al contrario di combattere la corruzione e osservando, francamente non a torto, come sia irrituale e improprio il riferimento che si fa alla volontà dell’Europa. Certo, le dichiarazioni del portavoce europeo hanno in qualche modo fatto scopa con le critiche formulate dall’opposizione e dalla magistratura italiana: egli ha prima chiarito che “la lotta alla corruzione è una priorità assoluta” per la Commissione Ue e ha poi ricordato come Bruxelles abbia “adottato un pacchetto di misure anticorruzione a maggio per rafforzare la prevenzione e la lotta alla corruzione”. Tuttavia, la “proposta di direttiva” elaborata da Europarlamento e Consiglio Ue non è stata ancora effettivamente varata e su quella bozza, lo scorso luglio, il Parlamento italiano ha espresso un parere critico proprio per la pretesa di “imporre” agli Stati membri il reato di abuso d’ufficio. In realtà, è fin troppo facile comprendere che la volontà del Governo di abolire, con priorità assoluta, l’abuso d’ufficio è una scelta concepita in funzione della migliore attuazione del PNRR, con l’evidente fine di tranquillizzare i sindaci che nei prossimi due anni saranno chiamati a firmare i bandi di gara per la famosa “messa a terra”.
Ebbene, proprio in tema di PNRR deve purtroppo registrarsi una diversa emergenza. Per far fronte alla carenza di personale amministrativo ed affiancare i magistrati nella redazione delle sentenze, la riforma Cartabia aveva istituito l’“Ufficio del processo”: una sorta di task force che doveva essere composta da ben 16mila giovani neolaureati, non solo in giurisprudenza ma anche in economia, informatica e scienza politiche, da assumere con contratto a termine di tre anni ed uno stipendio netto di circa 1.700 euro al mese che avrebbero dovuto abbattere l’arretrato e permettere così all’Italia di ottenere i fondi del PNRR. Ad oggi, tuttavia, l’Ufficio del processo si è rivelato un mezzo flop, con solo la metà dei posti che sono stati coperti e con giovani che si sono trovati senza alcuna formazione specifica nella trincea dei tribunali. Lo scorso anno il ministro degli Affari europei è stato costretto ad annunciare che il target della riduzione del 65% delle cause pendenti entro il prossimo 31 dicembre, concordato con Bruxelles, sarà impossibile da raggiungere. Anzi, in circa 50 tribunali, fra cui Bologna, Milano, Roma, Napoli, l’arretrato invece di diminuire starebbe addirittura aumentando.
Per correre ai ripari, con il recente Milleproroghe si è allora deciso di provare ad arginare questo scenario procrastinando di due anni la scadenza del loro contratto, con il concreto rischio in futuro di rivendicazioni per una stabilizzazione a tempo indeterminato. Nel ricordare che, secondo il PNNR, il “fattore lungaggine” doveva essere affrontato tramite riforme tecnico-processuali, e quindi a costo zero, le risorse stanziate per il comparto giustizia erano state destinate esclusivamente alla creazione dell’Ufficio del processo, senza alcun fondo specificamente dedicato alla digitalizzazione dei tribunali.
Se allora la macchina delle riforme del mondo della giustizia si è rimessa in moto, a prescindere da come la si pensi circa l’abuso d’ufficio, piuttosto che alimentare ad oltranza polemiche spesso strumentali, ci sembra che sia giunto il tempo in cui tutte la parti in causa riescano a mettere a fuoco queste emergenze strutturali, trovando la lucidità per risolverle. Urge, ribadiamolo ancora una volta, un vero cambio di passo sulle questioni più urgenti, auspicando che da parte sua il ministro recuperi una maggiore autonomia dalla realpolitik. E, a proposito di emergenze non più rinviabili, fra esse dobbiamo senz’altro annoverare quella del mondo carcerario, rispetto al quale il Governo deve impegnarsi per realizzare alcuni buoni propositi che esso stesso ha da tempo espresso: in particolare, il trattamento in comunità per i detenuti con tossicodipendenze e l’impegno faticoso ma irrinunciabile di assicurare ai reclusi una vera opportunità di rieducazione. Non resta che rimboccarsi tutti le maniche.
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