Lo schema di Piano nazionale di ripresa e resilienza approdato in Consiglio dei ministri per essere inviato alla Camere sintetizza le sei missioni prescritte dall’Europa – digitalizzazione, transizione ecologica, infrastrutture sostenibili, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute – e indica i relativi importi in ragione degli obiettivi che il Governo annuncia di voler raggiungere.
Poi passa a elencare le riforme cosiddette strutturali per la Pubblica amministrazione dedicando una scheda anche alla giustizia di cui si evidenzia la “bassa efficienza”. Un male, si legge, dovuto a due cause concomitanti: l’eccessiva durata dei processi e il forte peso degli arretrati. Quindi, si individuano i rimedi: assunzioni mirate e temporanee per eliminare il carico dei casi pendenti, maggiore ricorso a procedure di mediazione alternative, interventi di semplificazione sui diversi gradi del processo.
Buoni propositi, non c’è che dire, ma che sfiorano appena il perimetro del problema che s’intende risolvere. Il minimo sindacale rivolto ai soli aspetti quantitativi – e neanche tutti – tralasciando quelli qualitativi. Un giudizio più veloce non vuol dire di per sé un giudizio migliore. Certo, si eviterebbe di tenere le parti appese a vita a una decisione che non arriva, ma nulla garantisce che il servizio della magistratura, inquirente e giudicante, risponda davvero ai principii di lealtà buonafede e terzietà.
In particolare, nulla si dice sulla funzione dei pubblici ministeri nel processo penale: sull’ipocrisia dell’azione obbligatoria, sull’uso invasivo delle intercettazioni, sull’impiego disinvolto della polizia giudiziaria, sulla mirata fuga di notizie, sulla spasmodica ricerca del reato anche senza prove e su tutte le altre storture che già si conoscevano e hanno trovato riscontro nel Sistema, il libro denuncia dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara.
Una giustizia che funziona nel modo descritto da quello che è stato senza dubbio il più potente uomo dell’apparato non può che far paura. Non ai delinquenti, che conoscono mille modi per eludere il guardiano e farla franca. Ma alle persone perbene, che finiscono nel tritacarne per un nonnulla e rischiano di venirne fuori maciullati. Salvo a scoprire quando è troppo tardi, tardi perfino per il recupero dell’onore, che c’è stato un errore.
La riforma della magistratura in Italia dovrebbe essere la madre di tutte le riforme. Non esiste un settore della vita pubblica più delicato e funzionale la stabilità della democrazia. Com’è possibile che abbia conquistato tanto potere irresponsabile – non si è mai visto un togato pagare per le sue colpe -, esercitato con dosi così alte di leggerezza e cinismo? Il disprezzo per la vita altrui si percepisce nei troppi atteggiamenti di cattiva educazione, di superomismo legato alla certezza dell’intoccabilità.
E, infatti, chiunque abbia solo tentato di normalizzare un potere che dovrebbe essere in equilibrio con gli altri per far meglio funzionare la società – mentre invece si presenta più minaccioso che rassicurante – ha regolarmente fatto una brutta fine. Nessuno può elevarsi al di sopra della legge, sostiene la nostra Costituzione, eppure c’è chi si comporta impunemente come se dal rispetto della legge fosse sciolto.
È vero, si dirà che la gran parte degli appartenenti all’ordine – all’unica vera casta rimasta nel Paese – si comporta come dovrebbe e con onore. Ma il condizionamento della minoranza deviata sta diventando così forte che sono ormai pochissimi i cittadini pronti a dichiararsi fiduciosi nella giustizia. E questo è il più gran danno che si può arrecare a una comunità, alla sua libertà, alla sua capacità di stimolare l’iniziativa e la voglia di mettersi in gioco.
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