Pochi giorni fa, dalle pagine di questo giornale, Catello Maresca ha rilanciato il mai sopito dibattito sulla riforma della giustizia, facendo notare, fra i vari spunti di interesse lanciati, come non potrà la sola separazione delle carriere risolvere il problema dell’efficienza del sistema, formulando una serie di concreti esempi. Come stiamo a nostra volta sostenendo da un po’, la proposta di separare le carriere fra pm e giudici rischia di diventare un’arma di distrazione di massa, come la spazzacorrotti lo fu durante i governi Conte. Per non dire poi che stanno trovando conferma diverse criticità legate alle riforme sulla giustizia approvate nella scorsa legislatura, sulle quali, ahinoi, non si discute con uguale intensità.



Lo scenario appare quanto mai incerto, nonostante le recentissime rassicurazioni formulate dal ministro Nordio. Proviamo a semplificare le criticità che ci appaiono.

Una prima valutazione di natura politica ci spinge a ritenere che si sta animando, sebbene sottotraccia, una certa concorrenza tra i partiti di maggioranza che non potrà che acuirsi di qui a giugno prossimo: il timore è pertanto che la coalizione di Governo possa sacrificare proprio la riforma della giustizia per sedurre la pancia del proprio elettorato, storicamente di matrice giustizialista. D’altronde, altro aspetto di rilievo, c’è da assicurare una corsia preferenziale immediata all’altra riforma costituzionale in programma, ovvero il premierato.



Una seconda criticità, di natura più tecnica, attiene invece ai primi effetti concreti della riforma Cartabia: delle 20mila assunzioni precarie per smaltire l’arretrato civile, a distanza di pochi mesi, la metà è già in fuga. Doveva essere la misura organizzativa più rilevante, un cambiamento epocale per velocizzare i processi e abbattere l’arretrato, rispettando gli impegni presi con Bruxelles, così come la descriveva il governo Draghi e invece, ancor prima di essere portato a termine, il piano di potenziamento dell’Ufficio per il processo è già un flop.

Il programma messo a punto dalla Cartabia, dal valore di 2,26 miliardi, è praticamente fallito a causa della mancata previsione che migliaia di questi lavoratori, laureati e spesso non più giovanissimi, avrebbero potuto lasciare l’incarico dopo pochi mesi inseguendo la più banale delle ambizioni: un contratto a tempo indeterminato. Inutile aggiungere che, parallelamente, l’Italia ha già alzato bandiera bianca sul target più ambizioso, la riduzione del 65% dell’arretrato dei tribunali civili entro la metà del 2024 e del 90% entro la metà del 2026, così da spingere il Governo a proporre due modifiche alternative: una mera rideterminazione quantitativa oppure la previsione di target differenziati, che tengano conto delle differenze oggettive tra uffici giudiziari. Per la cronaca, se 95 tribunali su 140 hanno registrato una riduzione media pari al 28%, le restanti 45 sedi subiscono un aumento dell’arretrato: non esattamente un trionfo.



Terzo aspetto, sia politico che tecnico. Il governo doveva emanare i decreti attuativi della citata riforma Cartabia soprattutto in relazione alla riforma dell’ordinamento giudiziario. Registrato che la scadenza originaria è stata spostata di sei mesi, lo spirito della riforma osteggiata dai giudici perché riguardante la loro valutazione sta venendo in buona parte annacquato. La questione è in primo luogo politica poiché Nordio ha deciso, su 26 componenti della Commissione incaricata di preparare i decreti, di nominare ben 18 magistrati i quali hanno, ad esempio, deciso che le “gravi anomalie” che avrebbero dovuto penalizzare la carriera del magistrato come il rigetto delle richieste cautelari o la riforma e l’annullamento delle sue decisioni, saranno tenute in considerazione in relazione al numero degli esiti delle decisioni e delle richieste adottate dai magistrati appartenenti al medesimo ufficio. Come dire: un tot a peso, al di là del merito delle vicende. Per non parlare delle decine di magistrati distaccati presso i ministri che la riforma voleva far tornare a lavorare nei tribunali: al contrario il taglio dei magistrati “fuori ruolo” sarà del 10% appena, per altro non toccando quelli in servizio al ministero della Giustizia, al ministero degli Esteri e della cooperazione internazionale, al Csm e agli Organi costituzionali.

Insomma, con la ripresa dei lavori parlamentari in commissione Affari costituzionali della Camera dove saranno esaminate le proposte di legge sulla separazione delle carriere, i segnali che arrivano non sono dei migliori. Sebbene l’auspicio sarebbe quello di sviluppare un sano confronto di idee, si radicalizza invece lo scontro, come ad esempio è avvenuto a seguito dell’iniziativa degli oltre 300 magistrati in pensione, firmatari di una lettera in cui si diffida il ministro della Giustizia Carlo Nordio affinché non alteri la Costituzione con l’attuazione della separazione tra giudici e pm. Così, secondo alcuni, la levata di scudi delle toghe in congedo avrebbe innescato una sorta di effetto galvanizzante per la maggioranza, che avrebbe convinto molti dei suoi componenti ad andare in trincea, accelerando il percorso in Parlamento a dispetto delle iniziali previsioni di Palazzo Chigi. Altri invece, come ad esempio il presidente Caiazza dell’Ucpi, palesa tutta la delusione dei penalisti che, a fronte delle elevate aspettative iniziali, starebbero raccogliendo uno schiaffo dietro l’altro dal Governo, che non ha varato un solo provvedimento di senso liberale, alimentando ciò che qui abbiamo definito un certo populismo penale, con una eccessiva attenzione alle istanze della magistratura.

Nel recente rapporto, diffuso dalla Commissione europea per l’efficienza della giustizia (Cepej) lo scorso luglio, il gran numero di reati e le lungaggini del processo penale restano il primo nodo da sciogliere. Nel settore penale, l’Italia si è impegnata a ridurre entro il 2026 del 25% i tempi in ciascuno dei tre gradi di giudizio. Una scommessa sicuramente difficile da vincere. Il vero grande problema della giustizia penale italiana resta il peso di processi che sono troppi ed esageratamente lunghi.

Ed eccoci di fronte a ciò che rappresenta il vero problema. In Italia non esiste una adeguata politica criminale da almeno trent’anni: la logica indurrebbe a una politica di bonifica del codice penale da una serie di reati che ormai non destano neanche più allarme sociale. Criminalizzare qualsiasi comportamento antisociale pensando di risolvere il problema con l’uso della sanzione penale si è dimostrato nei fatti essere un percorso errato. Ma sin qui questo governo ha ragionato diversamente, basti pensare al caso dei rave party.

L’applicazione della pena andrebbe invece riservata a quelle condotte che ledono realmente beni di rilevanza costituzionale e andrebbe affidata a un sistema processuale concretamente funzionante. L’estate che volge al termine non è stata certo priva di sussulti poco incoraggianti, ma adesso che la corsa a destra si sta persino riaffollando, il rischio che nessuno voglia sporcarsi le mani, almeno fino a dopo le europee, appare assai concreto.

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