Il combinato disposto – come dicono i giuristi e per restare in tema – del fallimento della consultazione referendaria sulla giustizia e dell’ennesima assoluzione “perché il fatto non sussiste” di Pierluigi Boschi, padre della ex ministra Maria Elena, ci conferma quanto sia contraddittorio e perdutamente malato il sistema Italia.



Com’è ormai di dominio pubblico – i due libri scritti a quattro mani da Luigi Palamara e Alessandro Sallusti dovrebbero aver fugato ogni dubbio -, la magistratura inquirente si considera e si muove come sciolta da ogni responsabilità. Indaga alla presenza del minimo dubbio e poco o nulla s’importa della durata e dell’esito dei processi che istruisce.



Del cattivo funzionamento dell’impianto normativo e ancor di più della discrezionalità unita a impunità di chi esercita l’accusa sono in molti a dolersi anche perché sono sempre più numerosi i casi di errore e si allarga a dismisura la platea dei cittadini – in questo caso sudditi – messi alla gogna mediatica o in carcere senza meritarlo.

Anche le imprese, soprattutto quelle sane perché le furbastre sanno bene come farla franca, tollerano sempre meno ingerenze che oltrepassano la naturale competenza del controllore, mentre la Pubblica amministrazione è semplicemente annichilita di fronte alla prospettiva di dover rispondere di ogni firma e ogni permesso accordato.



Cosicché il nostro Paese è all’unanimità considerato tra quelli avanzati il più pericoloso per intraprendere qualsiasi tipo di attività. Chi non fa non sbaglia. E non entra nel mirino di un potere che ha fatto del sospetto il suo tratto dominante. Se mi adopero a favore di qualcosa avrò certamente un motivo inconfessabile da nascondere.

La posizione dominante del Pubblico ministero, che ha saputo catturare tutte le funzioni del giudizio comminando già in fase preliminare le sanzioni più dure, dal sequestro per equivalente di tutti i beni al carcere preventivo, è una minaccia per la democrazia e la prosperità. Se ne scrive, se ne parla nei convegni, ma nulla cambia.

La riforma della ministra Marta Cartabia – in questi giorni approvata dal Parlamento – fa qualche timido passo avanti lungo la strada del riequilibrio, ma così timido che rischia di non imprimere quella svolta che una recuperata civiltà vorrebbe. Tecnicalità a parte, il manico del coltello resta sempre nelle stesse impietose mani.

Il tempo per arrivare a sentenza, quando finalmente entra in gioco un giudice terzo, è talmente lungo che nessuna assoluzione riesce a restituire quello che nel frattempo è stato tolto: libertà, onore, patrimonio. Il semplice salire sulla giostra giudiziaria è una condanna senza appello che cambia la vita a chi ci capita.

Desta dunque meraviglia che così poca gente – il 20% degli aventi diritto al voto – abbia deciso di recarsi alle urne per esprimersi sui cinque quesiti proposti dalla Lega e dal Partito Radicale. Una percentuale così bassa da far ritenere la materia trattata quasi residuale, senza importanza.

È vero che mai come questa volta è calato il velo del silenzio e che gli stessi promotori poco e male si sono spesi per difendere le proprie ragioni, ma non si può ignorare il fatto che chi avrebbe dovuto informarsi e agire di conseguenza, i beneficiari delle misure, si è voltato dall’altra parte rifiutandosi di cogliere l’occasione.

Quali siano i motivi di questo atteggiamento – ostilità politica, antipatia personale, pigrizia fisica e mentale – è difficile stabilire nonostante lo sforzo dei tanti commentatori e addetti ai lavori. Si conferma che la forza della conservazione sia di gran lunga più vitale di quella del cambiamento. Chi è causa del suo mal pianga se stesso.

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