Il tormentato mondo della giustizia italiana ci consegna prima della pausa estiva un decreto legge in virtù del quale si estende la possibilità di ricorrere alle intercettazioni, dopo che per mesi il ministro Nordio non ha fatto che ripetere che nel nostro Paese le intercettazioni sono troppe e il loro uso va ridotto.
Quello che potrebbe sembrare un paradosso ci appare in realtà una mossa politica in grado di consentire al Governo di poter assumere il ruolo di paladino della lotta della lotta alla mafia, introducendo, con urgenza, una norma ad hoc per neutralizzare i rischi di depotenziamento del contrasto alle mafie insiti in una decisione della Cassazione.
Per quanto il fine appaia condivisibile, l’iniziativa del Governo ha sollevato non poche, trasversali, perplessità. Proviamo a spiegarne le ragioni.
Il decreto legge si collega ad una sentenza (la numero 34895 del 2022) della Cassazione che ha dichiarato illegittime e quindi inutilizzabili alcune intercettazioni disposte secondo il regime, più elastico, previsto per i “delitti di criminalità organizzata” in considerazione del fatto che il reato contestato non era quello di associazione mafiosa, ma un omicidio con l’aggravante mafiosa, cioè commesso “al fine di agevolare” l’organizzazione o “avvalendosi delle condizioni” da essa create. Secondo i giudici, in sostanza, la semplice contestazione dell’aggravante mafiosa, in assenza di specifica contestazione del reato associativo, non integra la nozione di delitti di “criminalità organizzata” che abbassa la soglia autorizzativa delle intercettazioni rispetto al regime ordinario e più restrittivo.
Premesso che il rischio che tale orientamento potesse consolidarsi facendo saltare numerosi processi in corso in cui le intercettazioni sono state disposte secondo il criterio considerato valido in precedenza era stato sollevato dalla Direzione Nazionale antimafia – che aveva avanzato timori per la tenuta del “doppio binario” che distingue la disciplina dei reati di criminalità organizzata da quella dei reati comuni –, il primo aspetto da evidenziare è che la sentenza in questione è stata depositata circa un anno fa, ovvero il 21 settembre 2022 e, come ricorderanno i lettori più attenti, essa è stata tirata fuori dal Governo in occasione del Consiglio dei ministri dello scorso 17 luglio, con una sospetta strumentalità, in occasione delle polemiche sollevate dall’intervista del ministro Nordio (in buona parte fraintesa, a onore del vero) allo scopo di dimostrare l’attenzione massima dell’esecutivo alla lotta contro la criminalità organizzata. La tempistica appare pertanto sospetta.
Inoltre, quanto al merito del provvedimento, secondo il segretario di Magistratura democratica, il decreto dimostra una sorta di sfiducia del Governo nella capacità dell’ordinaria dialettica giurisprudenziale di individuare il migliore equilibrio tra i diversi valori coinvolti.
Sulla stessa lunghezza d’onda sì è espresso il prof. Spangher, emerito della Sapienza, secondo il quale, quando la giurisdizione dà delle interpretazioni di garanzia, c’è sempre una parte della magistratura, quella soprattutto dell’Antimafia, che reagisce con veemenza, ottenendo la reazione della politica che attua dei correttivi; politica che invece resta inerme dinanzi a situazioni di minore tutela dei diritti rispetto ai quali occorre invece attendere che la giurisdizione si adegui alle decisioni di maggiore tutela delle garanzie offerte dalla Corte Costituzionale, dalla Cedu, dalla Corte di Giustizia europea.
Infine, secondo l’Unione delle camere penali, che pure sulla carta sarebbe molto vicino all’attuale Governo, il dicastero guidato da Nordio fa oramai sistematicamente seguire alle condivisibili dichiarazioni garantiste atti e proposte che vanno in tutt’altra direzione.
Insomma, una trasversale levata di scudi che non può essere casuale né strumentale al perseguimento di interessi personali o di categoria. Al di là del merito, residuali perplessità si concentrano anche sul metodo adottato, ossia sulla scelta di intervenire con un decreto legge per sanare un contrasto giurisprudenziale. La scelta infatti appare ispirata da quel populismo penale che si sforza di offrire apparente protezione ad insicurezze sociali, spesso più percepite che reali, perché alimentate ad arte dalla narrazione mediatica concentrata a cavalcare le emozioni. Le scelte operata dal Governo in tema di giustizia iniziano a far sorgere agli addetti ai lavori il dubbio che difficilmente possa esistere un governo di destra che abbia una politica giudiziaria orientata ad aumentare le garanzie, come invece propugna a gran voce il ministro competente sin dalla sua nomina e della cui onestà intellettuale di certo nessuno può dubitare. Al di là dei ripetuti proclami, le leggi finora emanate sono apparse ai più alquanto illiberali, a partire dal primo atto, il famigerato decreto rave.
Come d’altronde era stato ipotizzato in un primo momento anche da Palazzo Chigi, sarebbe stato francamente preferibile intervenire con una norma di interpretazione autentica, ovvero attraverso una norma che offrisse una definizione di criminalità organizzata, come fu fatto quarant’anni fa per definire l’associazione mafiosa. Altri tempi, altri governi, altra politica, altre esigenze di comunicazione.
Qualche inguaribile nostalgico potrebbe dire che si stava meglio quando si stava peggio. Noi abbiamo il dovere di essere inguaribilmente ottimisti.
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