Il regime del carcere duro, il 41-bis dell’ordinamento penitenziario, sembra ormai diventato improvvisamente il male assoluto.
Addirittura più della stessa mafia che tende a contrastare.
Ma in genere, se ne parla senza conoscerne né la storia, né la funzione, dalle quali nessun corretto approccio critico può prescindere.
Come dicono gli oratori eruditi, quindi, vale la pena di ricordare prima di tutto a me stesso di cosa stiamo parlando.
Il 41-bis è un istituto che consente di sospendere l’applicazione delle normali regole dell’ordinamento penitenziario all’interno degli istituti di detenzione in casi eccezionali.
Secondo il testo originariamente introdotto nel 1986 dalla legge Gozzini: “In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro della giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto”.
Solo nel 1992, dopo la tragica uccisione del giudice Giovanni Falcone, all’articolo si aggiunse un secondo comma disposto con il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (cosiddetto Decreto antimafia Martelli-Scotti), convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356. Con la nuova disposizione, in presenza di “gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”, si consentiva al ministro della Giustizia di sospendere le garanzie e gli istituti dell’ordinamento penitenziario, per applicare “le restrizioni necessarie” nei confronti dei detenuti per mafia, con l’obiettivo di impedire il passaggio di ordini e comunicazioni tra i criminali in carcere e le loro organizzazioni sul territorio.
La misura aveva carattere temporaneo, infatti la sua efficacia era limitata a un periodo di tre anni dall’entrata in vigore della legge di conversione. Tuttavia, fu prorogata una prima volta fino al 31 dicembre 1999, una seconda volta fino al 31 dicembre 2000 e una terza volta fino al 31 dicembre 2002. Il 24 maggio 2002 il governo Berlusconi emanò un disegno di legge di modifica degli articoli 4-bis e 41-bis dell’ordinamento penitenziario, poi approvato dal Parlamento con la legge del 23 dicembre 2002, n. 279, abrogando la norma che sanciva il carattere temporaneo di tale disciplina e prevedendo che il provvedimento ministeriale non potesse essere inferiore a un anno né superare i due anni, con eventuali proroghe successive di un anno ciascuna. Inoltre, il regime di carcere duro venne esteso anche ai condannati per terrorismo ed eversione. La legge n. 94/2009, tuttora in vigore, ne ha modificato di nuovo i limiti temporali, portandoli a quattro anni e prevedendo proroghe di due anni ciascuna. Secondo le nuove regole i detenuti possono incontrare senza vetro divisore i parenti di primo grado inferiori a 12 anni di età, ma resta il divieto alla detenzione di libri e giornali, tranne particolari autorizzazioni.
Si tratta sostanzialmente di uno dei capisaldi della lotta senza frontiere alle mafie, con lo scopo di recidere definitivamente i contatti dei capiclan con l’esterno del carcere, i canali coi quali costoro continuavano a dare ordini ai picciotti.
Da qualche tempo, l’istituto è oggetto di una ormai dichiarata ostilità ideologica che, se assecondata, porterà in breve tempo inesorabilmente alla sua abrogazione. O almeno ad un suo ulteriore forte ridimensionamento.
Si stanno muovendo le truppe cammellate degli ideologi iper-garantisti. Si stanno invocando principi supremi e valori riprendendoli dal cassetto dei ricordi di un tempo in cui si era convinti che le mafie non esistessero.
Approfittando delle nuove strategie delle mafie silenti, che ormai non sparano quasi più, ma investono nei mercati legali i proventi delle attività illecite, i soloni del carcere morbido tessono la loro tela.
Una strategia fin troppo chiara, tesa ad approfittare delle pieghe e delle lacune della normativa europea, che porterà ben presto a costringere lo Stato italiano ad intervenire fortemente sul cosiddetto carcere duro.
La sensibilità istituzionale europea, salvo risvegliarsi di soprassalto per qualche caso sporadico, come la strage di Duisburg, o l’uccisione dei giornalisti Gaphne Caruana Galizia a Malta o Jan Kuciak in Slovacchia, è lontanissima dalle esigenze di prevenzione antimafia. Ed in verità anche da quelle di repressione, come dimostrano i recenti interventi sull’ergastolo ostativo. O ancor prima la crociata sul concorso esterno in associazione mafiosa.
La linea sembra tracciata. Ormai è partito il fuoco “amico”. Uno dei baluardi della lotta alle mafie nel nostro paese è sotto l’attacco incrociato dei Garanti dei detenuti, spalleggiati da una parte della classe politica, e di un’intellighenzia sinistrorsa molto sensibile al tema delle garanzie, incoraggiata dalla sempre più numerosa stampa compassionevole.
Dall’altro lato, come spesso accade su questi temi, quasi nulla. Un contraddittorio praticamente inesistente. Qualche isolato magistrato antimafia, che crede di intravedere e prova a segnalare le conseguenze nefaste di questa tendenza negazionista e poco altro.
E allora il rischio che una dirigenza politica, distratta e poco preparata sull’argomento, acceda con troppa superficialità a soluzioni abrogatrici, si fa sempre più concreto.
Da molti giorni allora mi chiedo: che si può fare senza rischiare di restare di nuovo facile ed isolato obiettivo delle invettive mafiosoidi?
Denunciare, denunciare, denunciare. Nel tentativo almeno di sollecitare una discussione.
Sicuramente, ma forse si può provare a fare altro.
Questa volta, a differenza della battaglia sulle scarcerazioni che ha avuto sì frutti, ma con tante ulteriori personali sofferenze, scoperto il giochetto, mi sentirei di “sparigliare”.
È una mossa del gioco dello scopone scientifico che tende a disfare le coppie di carte. Una mossa rischiosa che va gestita dalla squadra di giocatori con sapienza e competenza. Ma che, se usata bene, spesso conduce alla vittoria.
Ragioniamo allora di umanità della pena, di condizioni detentive e di sicurezza pubblica.
Se le mafie sono ancora pericolose ed infiltrano le economie legali con conseguenze devastanti, un regime differenziato di espiazione della pena è addirittura obbligatorio.
Sarebbe impensabile il contrario. Le recenti simultanee rivolte in molti istituti di pena ne rappresentano la ultima tragica conferma.
Ma non è detto che questo regime debba continuare ad essere quello previsto dall’art. 41-bis.
A distanza di oltre trent’anni forse è arrivato il momento di rivedere l’ordinamento penitenziario.
Rigore e flessibilità dovrebbero essere i nuovi cardini ideologici.
Lavoro obbligatorio per tutti i detenuti in un percorso di profonda rieducazione che si inserisce nella cornice costituzionale di carceri moderne ed attrezzate.
I mafiosi, come tutti i detenuti, devono lavorare nel carcere, sono uguali agli altri.
La premialità così va legata all’effettività dell’impegno del detenuto.
Accanto a questo vanno previste sanzioni serie ed incisive in caso di trasgressione e di violazioni reiterate.
Il regime di rigore differenziato, allora, può diventare l’ultimo stadio di una progressione sanzionatoria dei detenuti più riottosi.
È arrivato il momento di prendere atto del fallimento del sistema penitenziario, di constatare l’estrema difficoltà della gestione degli istituti di pena sul fronte rieducativo.
Bisogna riappropriarsi del valore costituzionale del recupero e della risocializzazione dei detenuti, perché così com’è non funziona.
La storia carceraria – la cosiddetta fedina penale – dei mafiosi è fatta di continue ricadute nel crimine, segno evidente che, almeno per loro, ma il discorso purtroppo è più ampio, il programma di recupero non serve a nulla.
Solo riaprendo al più presto una nuova stagione costituente antimafia nell’ottica della rieducazione costituzionalmente orientata possiamo avere una qualche speranza di vincere la battaglia.