Da destra, poi da sinistra e ora di nuovo da destra si cerca di trovare la quadratura del cerchio sull’annosa questione giustizia. Dopo la riforma del 1988, l’attuale codice di procedura penale, detto anche codice Pisapia-Vassalli, non ha trovato ancora la sua stabilità. A periodi alterni si invocano riforme strutturali e modifiche serie che poi raramente riescono davvero a cogliere nel segno. La verità è che il codice che porta firme eccellenti dell’accademia giuridica del nostro Paese non ha saputo e non riesce tutt’oggi a superare la prova della realtà. Un codice di regole del processo penale e prima ancora delle indagini è valido e, quindi, efficace se riesce ad assicurare una verità giudiziaria quanto più prossima a quella reale. E se riesce nel contempo a garantire equamente i diritti di difesa e a consentire la giusta punizione dei colpevoli.
A distanza di quasi 35 anni dalla sua entrata in vigore forse sarebbe il caso di chiedersi se questo codice sia davvero adeguato alla realtà dei fenomeni criminali del bel Paese. E tale riflessione dovrebbe essere preliminare rispetto a ogni tentativo di approccio riformista, che altrimenti rischia di rimanere l’ennesimo sterile esercizio di sensibilità giuridica, magari sopraffina, ma poi, alla prova dei fatti, priva di incidenza nel risolvere le questioni ancora aperte. Cioè, per dirla più maccheronicamente, un’altra riforma inutile e dannosa.
In tale ottica, la disquisizione sulla separazione delle carriere, ad esempio, mi sembra assolutamente sterile e inconcludente. Non dico che non vada fatta, ma prima ci si dovrebbe chiedere se quel pubblico ministero, che si vuol separare per legge definitivamente dalla giurisdizione, abbia davvero acquisito il ruolo che il codice aveva disegnato per lui. E se, piuttosto che separare qualcuno di fatto già molto lontano dai giudici, non valga, invece, la pena di investire su un pubblico ministero davvero parte pubblica, che sia anch’egli veramente la prima garanzia di equità. Concetto, peraltro, già timidamente inserito nel codice attuale, che prevede l’obbligo per il pubblico ministero di raccogliere durante le indagini anche le prove a favore dell’indagato.
Si chiama cultura della giurisdizione, che va coniugata in concreto con l’altro elemento fondamentale, anch’esso non scontato, dell’attitudine investigativa e della capacità di coordinamento della polizia giudiziaria. È un dato purtroppo di sovente declinato in astratto e che né il concorso per esami, né il percorso di formazione insegnano veramente.
Per comprenderne la distorsione val la pena di rifletterci in concreto. Prendiamo ad esempio un pubblico ministero di una media procura italiana alle prese con le cosiddette indagini a strascico. Avviene spesso, forse troppo, che costui, ancor più se alle prime armi, rischi di adagiarsi assai acriticamente sulle posizioni della polizia giudiziaria, abbracciandole pressoché completamente. Nascono così le mega-inchieste in cui si rischia di buttare dentro tutto e tutti. È proprio come la pesca a strascico, dove le reti lanciate indiscriminatamente sul fondale marino distruggono o asportano qualunque cosa incontrino e lasciano un ambiente devastato, dove le comunità originarie si potranno reimpiantare solo dopo molto tempo. Così le indagini a strascico, dove il pubblico ministero finisce per indagare il fenomeno perdendo di vista i veri responsabili, senza fare operazione di filtro e di selezione degli obiettivi e/o degli indagati, provocano danni enormi ai cittadini coinvolti e all’immagine stessa della giustizia.
Questo accade purtroppo non di rado e sconvolge vite ed equilibri di famiglie e attività economiche. I motivi possono essere diversi e vanno dal numero eccessivo dei procedimenti assegnati ai magistrati alla poca capacità o preparazione di alcuni di essi nel portare avanti inchieste complesse tecnicamente e che coinvolgono interessi rilevanti. Ma prima ancora la causa genetica sta proprio nell’assenza (quasi sempre incolpevole) degli elementi qualificanti il ruolo del pubblico ministero e cioè l’attitudine investigativa, l’equilibrio e la cultura della giurisdizione. Quanti, travolti dalle carte o presi dal sacro furore accusatorio, riescono davvero a selezionare con precisione il materiale investigativo? E quando riescono faticosamente a farlo per tutti i procedimenti, quanto tempo resta loro per dedicarsi alle indagini serie e più delicate?
Cerco di spiegarmi, provando a prescindere dal principio filosofico che pure ne rappresenta la base fondante e dovrebbe sempre ispirare l’agire di chi ha a che fare con la vita delle persone, il socratico “sapere di non sapere”.
Quando ero pubblico ministero antimafia mi incrociavo spesso con colleghi stranieri e ho constatato come i sistemi giudiziari europei siano profondamente differenti, non tanto nei princìpi quanto nelle applicazioni concrete. Una collega tedesca, una volta, arrivò a una riunione di coordinamento visibilmente preoccupata e stressata. Le chiesi se fosse accaduto qualcosa di grave e lei sorprendentemente mi rispose di avere troppi “casi” (le loro indagini) da seguire contemporaneamente. Visto che io ne avevo al tempo un centinaio, tutti con decine di indagati, chiesi quanti ne avesse lei. La risposta fu disarmante: tre. Sì, tre, e tutti insieme! Lei tre e stressata, io cento e apparentemente abituato, o forse rassegnato.
Già questo ci dovrebbe far capire che un sistema in cui il pubblico ministero ha numeri ingestibili aumenta notevolmente il margine di errore. Il rischio è che, per sopravvivere, il pubblico ministero si affidi quasi inevitabilmente alla polizia giudiziaria che in molti casi è assai preparata, ma talvolta può anche indurre in errore, perché a sua volta si affida alla valutazione e al controllo del magistrato. Si crea, quindi, un corto circuito pericoloso che impedisce al pubblico ministero di svolgere il suo ruolo istituzionale di controllo e di indirizzo delle indagini. Molto spesso le stesse deleghe, che il legislatore immaginava come il momento della presa in carico delle indagini da parte del magistrato, sono praticamente deleghe in bianco.
Il primo obiettivo della riforma, perciò, dovrebbe essere quello di formare ed assicurare in concreto al sistema giudiziario un pubblico ministero costituzionalmente orientato che svolga un profondo e responsabile lavoro di indirizzo e di controllo delle indagini. E che di conseguenza risponda, poi, in termini almeno disciplinari e di progressione in carriera, dei suoi errori e del mancato controllo delle attività investigative. Le ultime riforme non paiono invece essersi preoccupate di assicurare al sistema giudiziario un vero ed efficiente pubblico ministero. Sono stati, invece, per lo più, introdotti stringenti obblighi di smaltimento degli affari e tempi contingentati, ma così facendo non pare sia migliorata la situazione. Anzi il pubblico ministero sembra sempre più un burocrate preoccupato delle statistiche che un giurista.
La posta in gioco è importante, si chiama giusto processo, ma involge anche ragioni di efficienza e produttività del sistema Paese, come ha intuito l’Unione Europea inserendo la riforma della giustizia negli obiettivi del Pnrr.
La strada da imboccare è lunga e tortuosa, ma deve essere diversa dal solito approccio semplicistico. In tal senso, credo che separare tout court le carriere di giudici e pubblici ministeri non rappresenti da sola la soluzione e neanche un palliativo ai mali della giustizia. Bisogna ripartire da una concezione di sistema, che metta al centro i principi ed i valori da tutelare, e poi declini le soluzioni più adeguate. Ma anche per far questo occorrono competenza, esperienza ed equilibrio.
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