Nel centro destra nessuno s’illudeva che mettere mano alla giustizia fosse una passeggiata. Pochi però potevano immaginarsi di finire impantanati praticamente ancora prima di cominciare. Di certo non se l’aspettava Giorgia Meloni, che sperava di avere dalla sua parte almeno una parte della magistratura simboleggiata da due toghe in posizione chiave nel suo entourage, il ministro Nordio e il sottosegretario Mantovano. Eppure è accaduto.
Sulla giustizia la coalizione di governo ha atteso diversi mesi, poi ha calato la bozza Nordio, ed è stato il caos. Non solo la prevedibile reazione negativa di una parte delle toghe e dell’opposizione, terzo polo escluso. Ma anche una serie di inchieste che hanno fatto salire la tensione, i casi Delmastro, Santanchè e da ultimo quello che tocca la famiglia del presidente del Senato La Russa. La giustificazione di “giustizia a orologeria” tanto cara a Berlusconi da sola però non basta. A complicare le cose pesa anche il senso di sfilacciamento della maggioranza, dove le sensibilità su un tema tanto delicato non sono proprio del tutto sovrapponibili.
Avere troppi fronti aperti non è cosa buona neppure per una coalizione con numeri ampi come il centrodestra oggi. Neppure in presenza di una opposizione debole. È stato quindi inevitabile, di fronte ai venti di tempesta, che venisse innestata una marcia più bassa. Agli scavi di Pompei, sotto il solleone, è così arrivata la frenata: la Meloni che sconfessa l’intenzione di riformare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, suggerendo a Nordio di concentrarsi su altre priorità. Poi la partenza per il terzo viaggio a Tunisi nel giro di quaranta giorni, e la firma di un memorandum d’intesa fra l’Unione Europea e il Paese africano, un discreto successo diplomatico.
La battaglia sulla giustizia che la attende, del resto, è complessa e ha molti fronti: fra i più caldi c’è la cancellazione del reato di abuso d’ufficio, che è contenuta nel disegno di legge approvato il 15 giugno dal Consiglio dei ministri e ancora fermo al Quirinale, in attesa che la firma di Mattarella ne consenta la presentazione alle Camere. Nello stesso testo anche la riduzione del potere di appello da parte dei Pm in caso di assoluzione e limiti alla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche.
Tanta carne al fuoco, ma il bersaglio grosso, l’obiettivo finale, rimane la separazione delle carriere fra magistrati giudicanti e pubblici ministeri, che dovrebbe essere contenuto in un disegno di legge da varare in autunno, a meno che non si ritenga necessario un ritocco costituzionale per arrivarvi.
Nella frenata domenicale della Meloni potrebbe aver pesato in modo significativo il lungo colloquio di giovedì pomeriggio con il presidente Mattarella, un’ora di faccia a faccia al termine della riunione del Consiglio supremo di difesa. Non una parola dal Colle, solo che si è trattato di un confronto “cordiale a costruttivo”. Come a dire che vi è stata disponibilità ad accogliere, in tutto o in parte, rilievi e preoccupazioni espresse dal capo dello Stato. Stop.
Tanto riserbo è dovuto alla delicatezza della posta in gioco. Mattarella, che pure non ha risparmiato richiami alla magistratura almeno dallo scoppio del caso Palamara in avanti, non può che spingere per soluzioni equilibrate e prudenti. Un mese di stop del testo Nordio negli uffici legislativi del Quirinale indicano chiaramente che di criticità ce ne sono, e parecchie. Nessuna delle due parti, però, ha interesse in questo momento a dar vita a uno scontro pubblico. Mattarella ha prima fatto sapere di aver ricevuto la prima presidente della Cassazione e il nuovo procuratore generale, poi il giorno dopo la notizia del colloquio con la premier. Come a dire che la moral suasion del capo dello Stato, che è anche presidente del Csm, è in pieno svolgimento.
In queste ore gli uffici legislativi del Quirinale e quelli di Palazzo Chigi stanno probabilmente lavorando a limare il testo del disegno di legge firmato da Nordio. Nessuno ha interesse a far divampare lo scontro, alla Meloni la sponda di Mattarella serve come il pane, anche per riformare la magistratura.
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