Chiusi gli ombrelloni e in attesa che, dopo una calda estate, inizi, ahinoi, un autunno caldo, la giustizia torna a scaldare gli animi della maggioranza. La settimana appena conclusa ha infatti visto consumarsi un nuovo braccio di ferro sulle intercettazioni fra i partiti del Governo che si è concluso con il più classico dei compromessi all’italiana che salva, probabilmente solo all’apparenza, l’unità della maggioranza. Nella seduta congiunta delle Commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera la quadra è stata trovata su ciò che le solite fonti del Governo hanno definito una prima stretta in attesa di un testo ad hoc promesso dal ministro Carlo Nordio. Così Forza Italia ha ritirato gli emendamenti sulla norma che salva le intercettazioni per reati non direttamente di mafia, di cui ci eravamo occupati all’inizio dell’estate, ma che ne mutuano il metodo attraverso la contestazione della specifica aggravante: norma sollecitata dalla Procura nazionale antimafia all’esito di una sentenza della Cassazione e di cui si era fatto garante il sottosegretario Mantovano.



In cambio il partito dei moderati del governo ha ottenuto l’approvazione di tre emendamenti collaterali: il primo impone al giudice per l’indagine preliminare di motivare “dettagliatamente gli elementi specifici e concreti” per cui autorizza le intercettazioni, senza rifugiarsi nel copia e incolla della richiesta del pm; il secondo vieta alla polizia giudiziaria di trascrivere “conversazioni afferenti la vita privata degli interlocutori e non rilevanti ai fini delle indagini”; il terzo, quello senz’altro di maggior concreto impatto processuale, vieta l’uso delle intercettazioni per reati diversi da quello per cui sono state autorizzate, ponendo così fine alle famigerate intercettazioni a strascico, che ad oggi sono consentite sia pure limitatamente in virtù di taluni limiti fissati dalla giurisprudenza.



Negli stessi giorni, a conferma che il clima non è dei migliori, in Senato si è consumata un’altra schermaglia avente come protagonista il trojan, ovvero il virus che inoculato nello smartphone degli indagati registra non solo le telefonate, ma anche le conversazioni, consente l’accensione della video camera e consente l’acquisizione da remoto di tutti i documenti ivi custoditi. All’interno della relazione sull’indagine conoscitiva in materia di intercettazioni, redatta dalla Bongiorno, sempre Forza Italia ha fatto inserire, sulla scorta di “un’illuminante sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo” e citando non senza malizia “l’audizione del dottor Stefano Musolino”, segretario di Magistratura democratica, la proposta di un supplemento di riflessione sull’uso del citato trojan per i reati diversi da quelli di criminalità e terrorismo, fra i quali anche la corruzione. In sostanza la proposta di riflessione suppletiva mira all’abolizione di quanto era stato introdotto sul punto dalla legge Spazzacorrotti voluta nel 2019 dal ministro Bonafede e grazie alla quale, ad esempio, è scoppiato lo scandalo Palamara.



A fibrillazioni palesi si sono anche accompagnati mugugni più nascosti. Sono ad esempio passate sotto silenzio, tranne qualche critica proveniente dall’avvocatura, le proposte relative all’introduzione del fascicolo delle performance dei magistrati, strumento che doveva servire, nelle intenzioni della Cartabia, a monitorare le attività dei singoli giudici o pm, i loro meriti, ma anche gli errori, con particolare attenzione alle inchieste poi finite in un buco nell’acqua, alle sentenze ribaltate e, soprattutto, agli arresti ingiusti. Nella sostanza, la prima bozza dei decreti attuativi ne annacqua molto il contenuto. Premesso che le valutazioni periodiche cui attualmente sono sottoposti i magistrati per le progressioni di carriera e stipendio sono positive nel 99% dei casi, senza un meccanismo che ne raccolga le “gravi anomalie”, la bozza di decreto attuativo cui si faceva cenno propone di introdurre il criterio della “marcata preponderanza” quale indice di non professionalità del magistrato, sicché egli dovrà sbagliare centinaia di inchieste o processi prima di incappare in una penalizzazione sotto il profilo professionale.

Il tutto, spiace dirlo, per un verso garantisce la conservazione del potere delle correnti, che per buona parte è esercitato proprio attraverso il controllo delle valutazioni di professionalità; e per altro verso preserva una certa irresponsabilità delle toghe. Per rimanere sul terreno dei numeri, dal 2010 ad oggi ci sono state solo otto condanne per responsabilità civile dei magistrati. Dati più o meno analoghi si registrano infine sul fronte della responsabilità disciplinare: ogni anno delle circa 1.500 segnalazioni che pervengono, oltre il 90% sono archiviate de plano dal procuratore generale della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare, senza che nessuno possa fare alcuna verifica.

L’unica nota positiva, almeno per chi scrive, si registra nelle parole del ministro e del viceministro della giustizia, che hanno confermato a più riprese come l’obiettivo principale resti la piena attuazione del processo accusatorio, passando attraverso la separazione delle carriere ma soprattutto, per quanto ci riguarda, il superamento del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Tema complesso, non facilmente sintetizzabile in questa sede ma che rappresenta uno dei principali nodi per la realizzazione di un processo realmente accusatorio e ispirato al principio del contraddittorio, stante l’impossibilità di assicurare il rispetto delle garanzie e al contempo dell’efficienza del sistema con la mole di fascicoli che attualmente il nostro sistema produce. Basta entrare in una qualsiasi aula di giustizia, soprattutto quelle dei tribunali delle grandi città, per averne la conferma.

Ecco, ad esempio, quanto vissuto al Tribunale Roma pochi giorni fa. Il ruolo del giudice prevedeva la trattazione di ben 21 processi; quello di interesse di chi scrive era fissato alle 10.15 ma è realmente iniziato alle 12.30; formulate le eccezioni preliminari, il giudice ha disposto l’invio degli atti al pm, in sostanza la regressione alla fase di indagine, perché per un coimputato irreperibile, ma regolarmente assistito da un difensore di fiducia, primo paradosso, non erano state correttamente eseguite le previste ricerche. Peccato che, secondo paradosso, quella stessa persona è regolarmente a giudizio in altro processo per fatti analoghi presso un’altra sezione dello stesso tribunale. Come non bastasse, dichiarata la pausa pranzo, il pm di udienza, vecchia amicizia universitaria, ha serenamente confidato che lui era stato avvisato solo il giorno prima che doveva sostituire un collega per quell’udienza e che pertanto era stato per lui impossibile studiarsi gli atti di quei 21 processi, una buona parte dei quali avevano ad oggetto complessi reati finanziari ed erano quindi composti da parecchi faldoni di atti di indagine a lui del tutto ignoti.

Non sfuggirà neanche al lettore più distratto che quanto raccontato, che rappresenta non certo una eccezione quanto piuttosto la quotidianità, è espressione del collasso della giustizia frutto del corto circuito di cui è prigioniera. Il codice disegnato nel 1988 continua a rappresentare uno straordinario sistema processuale ancorato ai più saldi principi di garanzia ed ha ragione il ministro Nordio quando afferma che esso è tutt’oggi, a oltre 30 anni, ancora scarsamente applicato, ma la strada da compiere passa anche e soprattutto per una seria messa a punto dell’aspetto organizzativo in grado di evitare orrori come quello appena raccontato. Serve quindi molta concretezza che, salvo errori, né si può imporre con le riforme, né si acquista al supermercato.

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