È difficile azzardare una previsione sulla partita politica della riforma della giustizia che adesso si gioca definitamente in Italia. La storia riserva sempre delle sorprese, soprattutto quando le revisioni necessarie colpiscono un’ideologia predominante per lungo tempo e le sue eredità mai dimenticate.

In questo caso le sorprese sono “millanta che tutta notte canta” e lo snodo è cruciale. Un governo di centrodestra o destra-centro (a seconda dei punti di vista e della vulgata mediatica), conservatore per antonomasia, si presenta con Carlo Nordio, un ministro della Giustizia liberal-democratico molto determinato, che vuole portare la giustizia italiana, finalmente dopo anni, nel campo delle democrazie occidentali, dove il processo penale prevede un giudice, un pubblico ministero che esercita, professionalmente, il ruolo dell’accusa, e un avvocato quello della difesa dell’imputato. E il processo parte con la presunzione di innocenza dell’imputato. Subito questo ministro viene contestato soprattutto a sinistra.



Prima sorpresa. Ma la riforma di Nordio non dovrebbe costituire una battaglia della sinistra democratica? Purtroppo siamo nel Paese dei paradossi e quindi prendiamo atto di questo rovesciamento di posizioni.

La separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero risale a secoli fa in alcuni Paesi e la si può trovare in una frase precisa di uno dei  creatori della democrazia moderna, Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, noto come Montesquieu. Il suo pensiero nelle Lettere persiane e ne Lo spirito delle leggi è di una esemplare linearità: se in un processo il giudice e il pubblico ministero fanno lo stesso lavoro ci troviamo di fronte a un abuso. Anche in Italia la questione fu tenuta ben presente dai migliori giuristi democratici, dalla scuola dei Merlino, dei Bissolati e poi dei Carnelutti per arrivare fino alla lezione di Giovanni Falcone, che viene addirittura a volte contestata o travisata da alcuni mentitori di professione, quando fa loro comodo.



Nonostante tutto questo retroterra di cultura democratica, in Italia si preferì mantenere per “pura convenienza contingente” il codice penale del mussoliniano Alfredo Rocco e la visione del ministro fascista Dino Grandi che spiegava: “la concezione di una differenziazione di funzioni non sarebbe più concepibile in uno Stato moderno”, cioè non sarebbe concepibile “una netta separazione tra magistratura requirente e magistratura giudicante”. Era una distinzione che contrapponeva lo Stato liberale e democratico a quello fascista che Dino Grandi acclamava.

Per convenienza, nonostante le preoccupazioni di Calamandrei, nel dibattito sulla cosiddetta “più bella Costituzione del mondo”, nel 1946, in Italia si concordò che il problema della separazione delle carriere fosse rinviato perché il Paese era spaccato in due e si temevano contrasti durissimi anche in campo giudiziario, con un retroterra fascista da sostituire.



Arrivarono più tardi la riforma Vassalli e le sentenze della Corte europea a rendere attuale una riforma e a mettere in discussione lo strapotere che il pubblico ministero ha in questo Paese. Ma l’Italia sembrava passata, ideologicamente e dal punto di vista culturale giuridico, da Dino Grandi al sistema del procuratore sovietico Andrej Vysinskij.

Insomma per motivi politici di tutt’altra posizione politica, i pm italiani hanno mantenuto un potere enorme e hanno infine decretato un attacco alla politica, per motivi interni e esteri, insieme agli sconfitti della storia, la sinistra comunista. È stata soprattutto questa parte politica che ha cominciato a difendere l’operato di questa magistratura politicizzata, faziosa, legata sia alla sinistra, ma – altro paradosso – anche ai poteri forti del Paese, quelli che molti democratici di vera sinistra, che pure militavano anche nel Pci, avevano definito “borghesia stracciona”, sia per quello che operavano in economia e nel potere del Paese, sia per come indirizzavano l’opinione pubblica, essendo i proprietari di quasi tutti i giornali più importanti del Paese.

È una questione lunga e complessa che richiederebbe altre spiegazioni, che riguardano innanzitutto le privatizzazioni e lo smantellamento dello Stato dei partiti, tanto da coniare il termine “partitocrazia”, un’assurdità anticostituzionale.

Trent’anni fa, proprio nel periodo che venne chiamato “Tangentopoli”, si poteva vedere nitidamente una specie di golpe mediatico-giudiziario, dove ad esempio le notizie di avvisi di garanzia e di inchiesta arrivavano prima ai giornali che a coloro che poi diventavano imputati. Fu il primo esperimento di populismo giudiziario attraverso un accordo nei fatti con plotoni di giornalisti che ancora oggi hanno il coraggio di rivendicare  il loro ruolo di corretti informatori dell’opinione pubblica.

Il presidente Francesco Cossiga a quei tempi ironizzava  “sull’innamoramento della gatta e del gatto”, rispettivamente dei portinai di via Solferino e del Palazzo di Giustizia a Milano, che si scambiavano le notizie giudiziarie che dovevano essere riservate.

Non si guardava tanto per il sottile neppure sulle intercettazioni, che trovavano subito spazio sulle pagine dei giornali.

Era quasi di dominio pubblico che esistessero “collettivi” di giornalisti che ricevevano i suggerimenti dai magistrati e tutti sapevano che, a una certa ora della sera, i direttori dei grandi giornali facevano una sorta di “riunione telefonica” per stabilire la linea comune da tenere.

Ci sono stati giornalisti che hanno denunciato tutto questo, che si sono dimessi dai loro incarichi e  sono stati i testimoni autentici di quello che ha detto Carlo Nordio in questi giorni. Il Guardasigilli è partito infatti  dall’uso strumentale che si fa delle intercettazioni. Non ha, come molti hanno insinuato, negato il valore delle intercettazioni, ha specificato che è una “porcheria”, che non appartiene a una civiltà giuridica democratica, sbattere su un giornale il nome di una persona su cui ci sono accertamenti riservati, quasi condannandolo prima del processo, e si è rifatto all’articolo 15 della Costituzione.

Poi da questa considerazione sulle intercettazioni “porcheria”, Nordio è arrivato alla “rivoluzione giudiziaria” che vuole attuare, mettendosi in gioco fino a dimettersi personalmente se non riuscirà a realizzarla. Apriti cielo!

Naturalmente la parte della sinistra più ideologizzata e nostalgica, con la pletora dei pm legati alla sinistra e a quel passato che ha distrutto la democrazia italiana, sono insorti facendo un pandemonio. “Siamo alla rivolta” ha titolato un giornale.

Ma Carlo Nordio non si è di certo fermato e ha ripreso tutti i problemi della giustizia italiana ribadendo la necessità di una riforma vera: le intercettazioni sbandierate sui giornali, che in molti casi hanno rovinato persone innocenti, sono un esempio clamoroso, ma, come era logico conoscendolo e come aveva preannunciato, Nordio è andato oltre mettendo in discussione il ruolo del pubblico ministero in Italia, che è “unico al mondo” nei sistemi democratici ad avere un potere spropositato e non è separato nella sua carriera da quella di giudice.

Ci si chiedeva all’inizio di queste note se il Guardasigilli riuscirà a realizzare questa riforma su cui si discute da almeno quaranta anni, dai tempi del caso Tortora, tanto per intenderci.

Carlo Nordio si trova in effetti tra due fuochi: da un lato il partito dei pm politicizzati a sinistra che è stato screditato dalle rivelazioni di Luca Palamara e da altri fatti che si stanno svolgendo ancora adesso senza che la magistratura tenti un minimo di autoriforma.

Dall’altro lato, Nordio deve fare i conti con il governo e la maggioranza a cui appartiene dove i cosiddetti “giustizialisti”, quelli tanto per dire che parlano a vanvera della “certezza della pena”, magari dimenticandosi della certezza del diritto, sono molti e con il processo di uno Stato democratico non hanno nulla a che fare. Insomma Nordio, con la sua determinazione liberal-democratica ha lanciato una bomba a orologeria in questa Italia smemorata e pasticciona.

Tuttavia nella crisi che vive attualmente la società italiana, anche se la preminenza è certamente quella di natura economica, la possibilità che il “Muro di Berlino” italiano, in campo culturale e giuridico, possa crollare esiste per l’impegno di diversi personaggi democratici che si muovono attraverso gli schieramenti politici in modo trasversale.

Può sembrare un accostamento azzardato, ma vedere che un uomo, grande comunista ma soprattutto grande democratico come Gianni Cervetti, che era nella segreteria ai tempi di Enrico Berlinguer e si occupava dell’organizzazione e del finanziamento del Pci, ripubblichi il suo libro L’oro di Mosca e affermi che quando scriveva di quell’“oro” e di altri affari rispondeva ai perplessi “che se la verità non è sempre rivoluzionaria, in questo caso non avrebbe potuto che fare del bene. Anche oggi rileggendo questo libro mi viene di continuare a pensarla allo stesso modo”.

È una grande ammissione di responsabilità che assomiglia ai discorsi di Bettino Craxi in Parlamento sul finanziamento illecito ai partiti, che naturalmente il “collettivo giustizialista” prese come aggravante per “ammissione di colpa”.

Ma se altre verità emergeranno e non saranno più nascoste, forse il Muro di Berlino italiano crollerà. Forse ritorneranno i partiti e magari svanirà Giuseppe Conte, l’avvocato che ritiene che la separazione delle carriere esista già. Forse ritorneranno i partiti con una visione e magari un finanziamento pubblico misurato in modo lineare, corretto e trasparente.

Chissà! Magari anche gli studenti universitari impareranno come è crollato il sistema dei partiti e magari ricorderanno per una volta anche chi era il vero capo della Resistenza, del Cln. Per informazioni ai giornalisti tanto acculturati dei talk show ricordiamo che si chiamava Alfredo Pizzoni e non era gradito alla sinistra, ragion per cui fu mandato in pensione a Liberazione avvenuta il 28 aprile 1945, per sostituirlo con uno stalinista del Psi, Rodolfo Morandi.

A ricordare tutte queste cose, dalla battaglia di Nordio alle testimonianze di Cervetti, viene in mente una domanda angosciosa: ma quanto è stata manipolata la storia di questo Paese?

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI

Leggi anche

Pensioni minime 2025/ I partiti che spingono all'aumento: e a quanto? (16 novembre 2024)Riforma pensioni 2025/ Forza Italia propone aumento minime da 3 a 7 euro (ultime notizie 16 novembre)Sondaggi politici 2024, la media/ Crollo M5s, Centrodestra ancora top al 48,4%: Schlein resta sotto al 23%