Dopo una non breve attesa, ha finalmente visto la luce il disegno di legge delega del governo sulla riforma della giustizia penale, presentato ieri dalla Cartabia in Cdm e tenuto coperto da un certo riserbo. Pur non avendo ancora potuto leggere il testo, alcuni contenuti sono stati veicolati all’esterno e su quelli formuliamo prime osservazioni che andranno ovviamente approfondite “con le carte in mano”.



Il nodo più complesso, ovvero quello relativo alla prescrizione, ha trovato un buon punto di soluzione, perseguendo la strada, qui in passato caldeggiata, dell’adozione della cosiddetta prescrizione processuale, nel caso di specie, tuttavia, opportunamente ribattezzata con il termine di “improcedibilità”. In pratica la prescrizione si blocca dopo il primo grado, come da riforma Bonafede, ma poi subentra l’improcedibilità dell’azione penale. Si avranno due anni di tempo per il processo di appello, un anno per quello in Cassazione. Se i giudici non rispetteranno questi termini il processo stesso “decadrà”, ovviamente sia per l’assolto in primo grado come anche per il condannato.



Come noto la difficoltà era quella di raggiungere un risultato che da un lato consentisse di riportare nell’alveo costituzionale la durata del processo, ma che, allo stesso tempo, potesse permettere ai 5 Stelle di non abiurare alla penultima bandiera e alle forze di maggioranza di rivendicare una parte dell’obiettivo riformatore.

La soluzione ipotizzata (che ha senz’altro il pregio di evitare di alimentare, a differenza di altre ipotesi formulate, un conflitto con i principi di uguaglianza e di presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva) pare essere stata il frutto di un ampio compromesso, incontrando il favore del Pd, che aveva di fatto proposto la prescrizione processuale un po’ semplificata, di Leu, che si era mosso più o meno allo stesso modo già dal 2019, di Forza Italia, che si era opposta all’ipotesi dello sconto di pena come sostituto dell’improcedibilità, della Lega, favorevole alla necessità di ridurre drasticamente i tempi del processo penale ma non le garanzie, di Italia viva, che si era opposta alla discriminazione tra assolti e condannati dopo il primo grado, oltre i 5 Stelle nei termini già espressi.



Un’altra questione che aveva sollevato molte perplessità era stata quella della “mitigazione” dell’obbligatorietà dell’azione penale, attraverso la previsione che il Parlamento potesse determinare periodicamente, anche sulla base di una relazione presentata dal Consiglio superiore della magistratura, i criteri generali dell’esercizio dell’azione penale.

La proposta formulata dalla ministra sembra andare verso una direzione leggermente modificata, secondo la quale il Parlamento verrebbe chiamato a dare solo un’indicazione di criteri indicativi molto generici, lasciando ai singoli procuratori della Repubblica l’onore e onere di individuare le vere priorità dell’esercizio dell’azione penale, in base alle esigenze del singolo territorio. Soluzione questa che, ove pienamente confermata, desterebbe non poche perplessità in merito alla violazione del principio di uguaglianza, per il fatto che alcuni reati verrebbero o meno perseguiti a seconda del luogo dove sono stati commessi.

Altro aspetto molto atteso era quello relativo al giudizio di secondo grado. Nella proposta originaria della commissione ministeriale si voleva impedire al pubblico ministero di appellare le sentenze di assoluzione e si voleva trasformare il secondo grado in un giudizio a critica vincolata, svuotandolo della valutazione di merito e restringendo così la cognizione del giudice di appello allo scopo di contenere il carico di giudizi. Adesso sembrerebbe invece che il pubblico ministero potrà continuare a presentare appello, anche se con delle restrizioni, e altrettanto potrà fare il difensore per conto del proprio assistito senza i limiti immaginati di un’impugnazione a critica vincolata. La scelta effettuata, se dovrebbe riuscire a evitare il fuoco incrociato di magistratura e avvocatura, presta tuttavia il fianco alla facile considerazione dello scarso impatto che, così declinata, la riforma avrebbe sulla gestione dei tempi processuali nel secondo grado di giudizio.

Pur nell’estrema complessità in cui sta operando la ministra per l’assai frastagliata maggioranza che regge il governo e per l’esigenza imponderabile di riscontrare le attese o meglio gli impegni assunti in ambito europeo, e fermo restando la già richiamata necessità di formulare un giudizio più completo alla piena lettura del disegno di legge, resta viva la sensazione che si stiano rinviando a data da destinarsi i veri problemi che affliggono il funzionamento della macchina giudiziaria; un po’ come voleva fare la norma del ministro Bonafede, che aveva sospeso a tempo indeterminato la prescrizione per i rinvii causa Covid. Qui almeno la Corte costituzionale non ha mancato di rivendicare il diritto dell’imputato a sapere “di che morte deve morire”. Di questi tempi occorre sapersi accontentare. 

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