Il ministro della Giustizia Carlo Nordio annuncia riforme sul processo penale: ritorno alla prescrizione del 2017 per una più meditata tempistica giudiziaria, modifiche alla competenza funzionale in tema di misure cautelari, rettifiche alla disciplina sulle intercettazioni ma anche novità su certune regole introdotte dalla riforma Cartabia (mandato specifico ad appellare per l’imputato assente, l’udienza predibattimentale e altro ancora). Materie già esplorate nel dibattito tra esperti.
Si tratterebbe di un cronoprogramma i cui contenuti sembrano largamente condivisi dalla maggioranza parlamentare che, contemporaneamente, presenta autonomi disegni di legge sulla giustizia penale.
Al riguardo, si apprende di un incontro avvenuto tra il ministro e i rappresentanti dell’Unione delle camere penali, oltre che di un tavolo tecnico, organizzato il 4 aprile prossimo, al quale parteciperanno esponenti dell’avvocatura e della Associazione nazionale magistrati; è nota inoltre la costituzione di una Commissione ministeriale, nominata in vista delle riforme, composta da magistrati e rappresentanti dell’Unione delle camere penali.
Il sindacato delle toghe, intanto, ha protestato a gran voce per non essere stato più accuratamente coinvolto per la progettualità ed esecuzione del programma.
Tutto molto interessante, inclusa la vibrante lagnanza dell’Anm. E l’accademia? La fucina di idee che incessantemente lavora, tramite dibattiti e pubblicazioni, nelle università italiane, dov’è?
Le codificazioni penali sono nate con l’ampio contributo dei professori universitari, dal codice di procedura penale del 1913, passando attraverso il codice Rocco e i tentativi di riforma degli anni settanta, per finire con quello del 1988 storpiato, nel corso degli anni, anche da un ampio numero di leggi scritte con disinvoltura. I giuristi dibattono, intuiscono le nuove prospettive grazie al background assimilato in una vita di studi, insegnano alle nuove leve – il futuro della nostra società – ma sono ignorati, salvo singolari eccezioni, dagli arcana imperii del legislatore, sempre più attento, secondo la momentanea direzione del vento, alla quantità normativa piuttosto che alla sua qualità; lo dimostra la scarsa durevolezza delle produzioni legislative sul processo penale (ma non solo), sormontate in tempi brevi da successivi interventi “riparatori”, in un eterno ritorno.
Certo, quest’epoca non promette alcuna stabilità; tutto può accadere da un giorno all’altro. Tuttavia, le radici di uno Stato si basano sul diritto; quanto più questo è mobile, malfermo, tanto più gli agglomerati umani si lacerano sullo sfondo di rapporti privi di certezza, logorati nell’attesa che le situazioni giuridiche si consumino o ne vengano di nuove a rivoluzionare lo status quo ante. Ed ecco a cosa serverebbe l’esperienza culturale dei professori universitari: permettere che una legge sia scritta in una lingua che crei meno equivoci – valutando le specifiche ricadute che ogni nuova parola è in grado di determinare in un sistema di regole – e prospettare i punti di confluenza tra interessi di rilievo costituzionale.
Invece, nella progettualità legislativa non contano lungimiranza, capacità intellettive e culturali; si ascolta chi alza di più la voce, chi è in grado di rivendicare posizioni anche minacciando di bloccare la macchina giudiziaria.
E così l’attuale ministro, dispiace dirlo, soprattutto in memoria dei suoi apprezzabili interventi giornalistici scritti da magistrato, palesemente trascura i professori universitari di procedura penale, nonostante le materia sulla quale si accinge a (ri)mettere le mani attenga esplicitamente alle libertà individuali coinvolte dal potere giudiziario, aspetto sul quale l’accademia alimenta da sempre un effervescente dibattito.
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